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Il Sorpasso

1962

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Regista

Scena iniziale: nella Roma silenziosa e deserta di un pomeriggio di agosto un’auto si aggira disperata alla ricerca di un vago segno di vita. Non è la desolazione post-apocalittica che avrebbe dipinto un Antonioni, bensì una quiete quasi surreale, la calma prima della tempesta di un’Italia che, pur immersa nel fragore del boom economico, trovava ancora angoli di un’antica, quasi rurale, solitudine. È una Roma svuotata non da una catastrofe, ma dall’esodo vacanziero, una pausa straniante in cui l'eco del futuro, frenetico e inesorabile, è già avvertibile.

Il nostro punto di vista è quello della cinepresa, nel posto del passeggero dietro il guidatore, in sottofondo il sassofono di Riz Ortolani ci dice che c’è ancora una vaga speranza. È una speranza malinconica, intrisa di una dolceamarezza tipica della commedia all'italiana, una premonizione sonora di un viaggio che non potrà concludersi con un lieto fine convenzionale. La musica di Ortolani non è mero accompagnamento, ma una narrazione parallela, capace di suggerire l'inquietudine e l'effimera gioia che punteggeranno le ore successive, quasi un requiem anticipato per un’epoca e per un modo di essere.

L’uomo prova ad usare invano un telefono dietro ad una serranda, poi sconsolato riparte rombando nella solitudine più totale. Questo gesto, così semplice e quotidiano, acquista un significato quasi universale: la disconnessione, l'impossibilità di stabilire un contatto autentico, l'isolamento che si annida persino nel cuore della modernità.

E’ così che inizia uno dei film più belli del dopoguerra italiano. "Il Sorpasso" di Dino Risi non è solo un film, ma un affresco vivente, un compendio visivo e narrativo di un'Italia in rapida e convulsa trasformazione. È il canto del cigno per una certa innocenza, e l'alba amara di una nuova era.

Questo sbruffoncello (in francese il film fu distribuito con il significativo titolo di “Le Fanfaron”, quasi quanto il Miles Gloriosus di Plautina memoria) coinvolge, suo malgrado, uno studente di giurisprudenza in un viaggio sgangherato dove ad ogni tappa cerca di coinvolgere lo studente a restare ancora un po’ con lui. Bruno Cortona, interpretato con una verve quasi primordiale da un Vittorio Gassman in stato di grazia, è l'archetipo dell'italiano medio del boom: cinico, vitale, superficiale, ma anche capace di una disperata, quasi infantile, ricerca di compagnia e di senso. La sua è una fame insaziabile di vita, di esperienze, di piacere, che si traduce in un nomadismo esistenziale fatto di gesti eccessivi e parole roboanti. Accanto a lui, la sobria e fragile figura di Roberto Mariani, interpretata con delicata introspezione da Jean-Louis Trintignant, funge da specchio e da contraltare. Roberto non è solo uno studente, ma il simbolo di un'Italia più riflessiva, timida, forse ancora legata a valori intellettuali e morali che il furore del consumismo sta rapidamente erodendo. Il loro incontro, casuale e dettato dall'impulso irrefrenabile di Bruno, si rivela l'espediente narrativo per un'odissea picaresca che è, in realtà, una discesa nell'anima contraddittoria degli anni Sessanta.

Sarà l’occasione per un viaggio tra trattorie, incidenti stradali, belle turiste straniere, cameriere compiacenti, ex mogli furenti, feste gaudenti. Ogni tappa è un quadretto di costume, un micro-saggio antropologico sulla società che si stava delineando: l'esplosione del turismo, la liberazione dei costumi (seppur ancora superficiale), l'effimero benessere che si traduceva in un'ostentazione quasi rituale. Il viaggio non ha una meta precisa; è la fuga stessa ad essere il suo scopo, un'accelerazione costante verso un futuro indefinito. La Lancia Aurelia B24 Spider, vera e propria co-protagonista, non è solo un mezzo di trasporto ma un simbolo tangibile di quel desiderio di velocità, di evasione, di modernità che caratterizzava il decennio. Attraverso il parabrezza, Risi ci offre un palinsesto visivo del "miracolo italiano": le autostrade in costruzione, le spiagge affollate, le città che si espandono, ma sotto la superficie patinata, emerge una certa vuotezza, una ricerca spasmodica di un piacere che non appaga mai del tutto.

Il contrasto tra la spacconaggine di Bruno e la sobria introspezione di Roberto è la chiave di lettura del film: due poli opposti attratti per un attimo dal fluire degli eventi, in definitiva è il contrasto tra strepito e silenzio, tra mondanità e intimità, tra apparire ed essere. Bruno incarna l'esteriorità esibita, la vita vissuta in superficie, un'esistenza costruita sul simulacro dell'ottimismo e dell'invulnerabilità. Roberto, al contrario, rappresenta la profondità, la ricerca di un significato più autentico, il disagio di fronte a un mondo che sembra aver perso la sua bussola morale. La loro dinamica è una danza tra l'uno e l'altro, un'altalena tra l'esuberanza contagiosa di Bruno e la malinconia latente di Roberto, che lentamente si lascia sedurre da un'energia che gli è estranea, ma irresistibile. La risata fragorosa di Bruno e il suo perenne ottimismo nascondono una profonda solitudine, una incapacità di stabilire legami duraturi, una vita fatta di fughe e di incontri casuali, ma mai veramente significativi. È la tragedia di un uomo che, pur vivendo al massimo, non vive mai davvero.

Questa sorta di armonizzazione dei contrasti fa di questo film un’opera sospesa tra gli estremi della realtà, un affascinante spaccato delle contraddizioni della società degli anni ‘60. "Il Sorpasso" è un capolavoro della commedia all'italiana, genere di cui Risi fu uno dei massimi esponenti, capace di fonderne la satira sociale con la tragedia umana. La sua risata è spesso un ghigno, la sua leggerezza nasconde un peso esistenziale. Il finale, così brusco e inaspettato, non è un mero colpo di scena, ma la conclusione inevitabile di una corsa sfrenata, il punto esclamativo sulla caducità di un'epoca e sulla fragilità di un certo modo di vivere. È una metafora amara della fine di un'illusione, il risveglio violento da un sogno di eterna giovinezza e libertà senza limiti. L'impatto di quel momento finale trascende la trama per imprimersi nella memoria collettiva come l'epifania di un'Italia che, nel suo sorpassare tutto e tutti, finiva per sorpassare anche se stessa. E proprio in questa sua disarmante lucidità, "Il Sorpasso" non smette di parlarci, con la forza profetica di un classico che, attraverso le lenti del passato, continua a riflettere le incertezze e le frenesie del nostro presente.

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