Il sospetto
1941
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Regista
Un organismo sociale, come un corpo, può ammalarsi. A volte la malattia è un lento deperimento, altre volte un’infezione fulminante che travolge le difese immunitarie della civiltà. Il patogeno, in questo caso, non è biologico ma memetico: un’idea, una bugia, distillata nella sua forma più pura e tossica, che si insinua nel flusso sanguigno di una piccola comunità danese e ne provoca una sepsi morale. Thomas Vinterberg, con Il Sospetto (titolo originale Jagten, "La Caccia", infinitamente più calzante), non si limita a filmare questa infezione; ne esegue una vivisezione in tempo reale, con la lucidità clinica di un chirurgo e l'empatia straziante di chi sa che il paziente siamo, in fondo, tutti noi.
Reduce, ma mai del tutto guarito, dalla rivoluzione estetica del Dogma 95 che aveva co-fondato con Lars von Trier, Vinterberg porta con sé le scorie benefiche di quel manifesto. La sua macchina da presa è un sismografo dell'anima: mobile, nervosa, incollata ai volti, quasi a voler violare l'ultimo baluardo di privacy dei suoi personaggi per registrarne ogni micro-espressione, ogni crepa nella maschera sociale. Non c'è la fotografia patinata che edulcora il dolore; c'è la luce fredda e democratica della Scandinavia, che illumina senza giudicare sia i prati idilliaci dove i bambini giocano, sia il fondo oscuro dell'animo umano. È un post-Dogma maturo, che ha abbandonato la rigidità del voto di castità stilistico per abbracciare una narrazione più strutturata, senza però tradire la ricerca di una verità emotiva brutale, quasi insopportabile.
La genesi del "sospetto" è un capolavoro di scrittura sottile. Non nasce da una malvagità calcolata, ma dal terreno fertile e instabile dell'immaginazione infantile. Klara, la bambina al centro della vicenda, non è un'incarnazione del male come la Rhoda Penmark de Il seme della follia. È piuttosto una creatura confusa, che mescola frammenti di realtà (un'immagine pornografica vista per caso), desiderio di attenzione e l'incapacità di articolare sentimenti complessi. La sua bugia è quasi accidentale, una scheggia impazzita che, una volta pronunciata, acquisisce una vita propria. È qui che il film trascende il dramma individuale per diventare un trattato sulla natura della verità in un'era di isteria collettiva. Gli adulti, i "guardiani" dell'innocenza, non interrogano la bugia: la accolgono, la nutrono, ne hanno un disperato bisogno. Proteggere i bambini diventa il pretesto per scatenare i propri mostri, per dare un volto e un nome all'ansia strisciante che cova sotto la superficie della loro ordinatissima esistenza.
Il film si trasforma così in una rilettura moderna e laicizzata de Il crogiuolo di Arthur Miller. Salem non ha più i cappelli a cono e la rigida teocrazia puritana; ha le villette a schiera, l'arredamento di design e una fiducia incrollabile nelle perizie degli psicologi infantili. Ma il meccanismo è identico: la caccia alle streghe. La comunità, per preservare la propria immagine di purezza, deve espellere l'elemento contaminante. Lucas, l'insegnante d'asilo interpretato da un Mads Mikkelsen monumentale, diventa il corpo estraneo su cui proiettare ogni paura. Il suo volto è la topografia del film: una maschera di mitezza e gentilezza che viene lentamente erosa, scavata, fino a rivelare l'osso nudo del dolore primordiale, della rabbia impotente, della disperazione ferina. La sua performance è un saggio di sottrazione. Non urla, non si scompone platealmente, almeno fino a quando il vaso non è colmo. La sua sofferenza è tutta interiore, un collasso silenzioso che noi spettatori percepiamo nel tremolio di un labbro, nello sguardo perso nel vuoto, nel modo in cui il suo corpo, prima aperto e accogliente, si chiude in una postura difensiva.
È qui che Vinterberg orchestra un'impeccabile applicazione cinematografica della teoria del capro espiatorio di René Girard. Lucas non è colpevole di nulla, ma la sua colpa non ha importanza. Ciò che importa è che la comunità ha bisogno di un colpevole per placare la propria violenza mimetica e ristabilire un ordine fittizio. La scena nel supermercato è emblematica: non è un semplice atto di ostracismo, è un rituale di de-umanizzazione. Lucas non è più un vicino, un amico; è un'icona del male, un "non-uomo" a cui è negato persino il diritto di acquistare del cibo. La violenza che esplode nella chiesa durante la messa di Natale è la catarsi inevitabile di questa tensione. Lucas, finalmente, reagisce. Affronta il suo principale accusatore, Theo, non con la logica – che si è rivelata inutile – ma con la stessa forza irrazionale che lo sta distruggendo. È un momento terribile e liberatorio, in cui il mite agnello sacrificale mostra i denti del lupo che la comunità ha sempre voluto vedere in lui.
Il film si inserisce in una tradizione letteraria e cinematografica che esplora il lato oscuro dell'ordine apparente, da "La lotteria" di Shirley Jackson al cinema di Michael Haneke, in particolare Il nastro bianco, che analizza la genesi del male collettivo in una cornice altrettanto puritana e repressiva. Ma se Haneke è un analista distaccato e gelido, Vinterberg immerge le mani nel cuore pulsante dei suoi personaggi. Il Sospetto non è solo una parabola sociale, è un incubo kafkiano in pieno sole. Come Josef K. ne Il processo, Lucas è accusato di una colpa indefinita da un'autorità imperscrutabile (la comunità stessa) e ogni suo tentativo di difesa non fa che rafforzare il sospetto. La sua innocenza è, paradossalmente, la prova più schiacciante della sua astuta colpevolezza.
L'opera di Vinterberg è anche, e forse soprattutto, un'impietosa critica al modello sociale nord-europeo, spesso idealizzato. Sotto la patina di progressismo, tolleranza e benessere del welfare state, il regista scopre le stesse dinamiche tribali e irrazionali che governano società considerate più "primitive". La fiducia cieca nell'autorità (gli "esperti" che interrogano la bambina con domande suggestive) e il conformismo del gruppo si rivelano più forti di ogni legame personale. L'amicizia, l'amore, la lealtà: tutto viene sacrificato sull'altare della sicurezza collettiva. Il bosco, luogo della caccia e scenario ricorrente, diventa il correlativo oggettivo di questa regressione allo stato di natura hobbesiano: uno spazio dove la legge della civiltà è sospesa e vige solo quella del branco.
Il finale è un colpo di genio agghiacciante. Un anno dopo, Lucas è stato scagionato, apparentemente reintegrato. Durante una battuta di caccia, simbolo della virilità e della coesione comunitaria, un colpo di fucile lo sfiora, sparato da una figura indistinta tra gli alberi. Non sappiamo chi sia stato. Potrebbe essere chiunque. L'assoluzione legale non ha estinto il sospetto, che ora è diventato un miasma permanente, invisibile, che aleggerà su di lui per sempre. La caccia non è finita. È solo diventata silenziosa, anonima. Lo sguardo finale di Lucas, che fissa il bosco, non è più quello di un innocente confuso, ma di un uomo che ha guardato nell'abisso della natura umana e sa che l'abisso, a sua volta, non smetterà mai di guardarlo. Non c'è redenzione possibile, perché la macchia del sospetto, una volta impressa sull'anima, non può essere lavata via. Può solo sbiadire, in attesa che una nuova ondata di paura la ravvivi. Il Sospetto è cinema necessario, un pezzo di vetro piantato sotto la pelle dello spettatore, che continua a far male molto tempo dopo che le luci in sala si sono riaccese. Un capolavoro spietato che ci ricorda come la linea che separa la civiltà dalla barbarie non sia un muro di cemento, ma un sottilissimo strato di ghiaccio. E basta un sussurro per mandarlo in frantumi.
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