Il Tesoro della Sierra Madre
1948
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Regista
Tre uomini alla ricerca dell’oro nel Messico Centrale, andranno incontro ad ogni genere di avversità fino ad arrivare al cospetto delle loro stesse anime, denudate di ogni velleità umana. Non è solo un’odissea geografica, ma un viaggio nel profondo dell’inconscio, un disvelamento impietoso delle pulsioni più primordiali che la civiltà fatica a contenere.
L’avidità, una passione spregevole in cui altri deplorevoli vizi possono annidarsi – dalla paranoia alla brutalità, dalla diffidenza alla follia omicida – è raramente trattata nei film con il disprezzo franco e ironico che è vividamente manifestata in quest’opera. Lungi dal glorificare la ricerca della ricchezza come motore di progresso o realizzazione personale, Huston la dipinge come una malattia contagiosa, un veleno che corrompe ogni legame, trasformando la fratellanza in un ring per la sopravvivenza del più disperato. È un’anti-favola del sogno americano, un capovolgimento cinico e preveggente della retorica del "self-made man", in cui l’oro non è liberazione ma una condanna, un peso che trascina i suoi cultori verso l'abiezione morale. In questo, il film anticipa, o per lo meno si pone in dialogo con, opere che esploreranno simili recessi dell'animo umano, dal più tardo e viscerale C'era una volta il West di Leone, fino all'ossessivo delirio petrolifero di Il petroliere di Paul Thomas Anderson, pur mantenendo una sua inconfondibile e sottile amara ilarità.
E certamente le grandi star di Hollywood raramente sono esposte in tale luce crudele come quella in cui viene gettato Humphrey Bogart in questa nuova immagine che Huston gli cuce addosso. Lontano anni luce dal cinico ma fondamentalmente onorevole Rick Blaine di Casablanca o dal sagace Sam Spade di Il falco maltese, qui Bogart incarna Fred C. Dobbs, un uomo che, sotto la pressione del deserto e del metallo luccicante, si sfilaccia progressivamente, scivolando in una paranoia parossistica che lo rende tanto meschino quanto tragico. È una performance che ridefinisce il suo archetipo attoriale, dimostrando una versatilità e un coraggio rari per un divo della sua caratura, disposto a sacrificare l’aura di eroe per dipingere un ritratto di umana degenerazione. Si narra che la Warner Bros. fosse inizialmente riluttante a mostrare Bogart in un ruolo così antieroico e repellente, temendo per la sua immagine, ma la determinazione di Huston prevalse, regalandoci una delle interpretazioni più potenti e indimenticabili della sua carriera, meritevole di un Oscar che, ironicamente, andò al padre di John, Walter Huston, per il suo straordinario ruolo di Howard.
Ma il fatto che questo dramma affronti un tale oscuro recesso dell’animo umano è un segno di originalità e maturità. Il Tesoro della Sierra Madre non è semplicemente un film d'avventura; è uno psicodramma esistenziale camuffato da western, un'allegoria della caducità dei desideri umani di fronte all'impassibilità della natura e all'inevitabilità del fato. Rappresenta un punto di svolta, un'opera che ha avuto il coraggio di incrinare le convenzioni narrative e morali del cinema classico hollywoodiano.
John Huston compie in questo senso una rivoluzione del linguaggio cinematografico hollywoodiano e porta sul grande schermo gli aspetti peggiori dell’animo umano, abbandonando il sicuro solco del politically correct per un’indagine acuta, trasgressiva, torbida e affascinante. Huston, figura unica di auteur nel sistema degli studios, era noto per la sua visione senza compromessi e la sua inclinazione per storie di uomini imperfetti, alla ricerca di obiettivi spesso illusori o distruttivi. Qui, la sua regia si fa asciutta, quasi documentaristica, prediligendo riprese in esterni, nella vastità impervia e polverosa del Messico rurale – una scelta ardita per l’epoca che conferì al film un realismo crudo e tangibile. Non c'è spazio per il sentimentalismo o per gli stereotipi del buonismo; i personaggi sono delineati con una complessità morale che sfugge alla facile categorizzazione, le loro debolezze non sono espedienti narrativi ma la linfa vitale del dramma. La violenza non è glorificata, ma mostrata nella sua brutale efficacia, una conseguenza logica della disumanizzazione che l'oro provoca. In questo, Huston si allinea a una sensibilità proto-noir, portando sullo schermo non tanto la luce e le ombre, ma la polvere e il fango dell'anima umana. È un capolavoro di equilibrio tra epopea e introspezione, tra paesaggio grandioso e miseria interiore.
Un Humphrey Bogart insolito, dunque, che si fa notare per una grande prova di bravura recitativa, la cui trasformazione fisica e psicologica, dal senzatetto disperato all'uomo corrotto dalla sua stessa ossessione, è resa con una profondità straziante. Accanto a lui, Walter Huston regala una performance memorabile nei panni di Howard, il vecchio cercatore d’oro, un misto di saggezza popolare e pragmatismo cinico, che osserva il tracollo dei suoi compagni con una lucidità quasi fatalista. La loro interazione, e quella con il più onesto Tim Holt (Curtin), compone un trio dinamico la cui alchimia è al cuore della narrazione.
Menzione speciale per la fotografia di Ted D. McCord che restituisce paesaggi incontaminati, gloriosi nella loro algida purezza, in perfetta disarmonia con l’incedere degli avvenimenti. Il sole impietoso che taglia le rocce, il vento che solleva la polvere, la vastità silenziosa e indifferente della Sierra Madre diventano quasi un personaggio a sé stante, un testimone muto e grandioso della meschinità umana. La luce naturale esalta le linee scavate sui volti dei protagonisti, sottolineando la loro fatica e il lento sfilacciarsi della loro sanità mentale, mentre le inquadrature ampie del paesaggio montano sottolineano la loro insignificanza di fronte alla potenza della natura, che alla fine si riprende tutto, con una beffa finale di spietata perfezione.
Un film introspettivo, umbratile e intelligente, che si eleva al di là del mero racconto d'avventura per assurgere a statura di parabola morale universale. La sua risonanza atemporale non risiede solo nella sua straordinaria fattura tecnica o nelle magistrali interpretazioni, ma nella sua capacità di esplorare con amara lucidità le derive più oscure dell'animo umano, dimostrando come la vera ricchezza sia forse l'unica cosa che il denaro non può comprare, e che l'ironia del destino può essere la più grande, e più liberatoria, delle beffe. Un classico imperituro, la cui lezione rimane oggi più attuale che mai.
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