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Il testamento del dottor Mabuse

1933

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Regista

Un fantasma si aggira per la Germania, ma non è quello del comunismo. È un’entità più antica, più primordiale: la volontà di potenza distillata in pura essenza, un’idea virale che si propaga non attraverso il sangue, ma attraverso l’inchiostro e le onde sonore. Fritz Lang, con Il testamento del dottor Mabuse, non dirige un semplice sequel del suo capolavoro muto del 1922; orchestra una seduta spiritica cinematografica, evocando un Male che ha trasceso il corpo del suo ospite per diventare un’infezione memetica, un software maligno che gira sull'hardware della psiche umana. Il Dottor Mabuse è confinato, catatonico, in un manicomio sotto la supervisione del Professor Baum, eppure il suo impero del crimine prospera, le sue direttive, scritte in un febbrile stato di trance, vengono eseguite da una cabala di seguaci senza volto.

Siamo nel 1933, l'ultimo, rantolante respiro della Repubblica di Weimar. L'aria è densa di angoscia, di un desiderio tellurico di ordine, anche se quell'ordine deve nascere dal caos più totale. Lang, con la sensibilità sismografica di un grande artista, non si limita a riflettere questa ansia: la amplifica, la distilla in un incubo espressionista dove la logica collassa. Il "Testamento" di Mabuse non è un piano, è un vangelo del terrore, un manifesto nichilista che predica la distruzione come fine ultimo. "L'Impero del Crimine", come lo chiama, non è una volgare associazione a delinquere finalizzata al profitto; è un progetto filosofico, quasi religioso, che mira a erodere le fondamenta stesse della società borghese, a creare un "regno di terrore senza fine" per il puro piacere anarcoide di veder bruciare il mondo. In questo, Mabuse si rivela un antenato diretto di figure come il Joker di Alan Moore o di Christopher Nolan: un agente del caos la cui vera arma non è la pistola, ma l'idea che la civiltà sia una farsa fragile, a un passo dal crollo.

Lang, maestro della transizione dal muto al sonoro, qui non si limita ad "aggiungere" il suono: lo forgia come strumento di oppressione psicologica. Se in M - Il mostro di Düsseldorf il fischio di Peter Lorre era una firma acustica che lo ancorava alla realtà, qui la voce di Mabuse è una presenza spettrale, disincarnata, che parla attraverso altoparlanti, attraverso le labbra del posseduto Professor Baum, persino attraverso il frastuono assordante di una fabbrica. Il suono diventa il veicolo dell'infezione. L'assenza di suono è altrettanto terrificante: il ticchettio di un ordigno in una stanza silenziosa assume una valenza metafisica, è il tempo stesso che si consuma prima dell'apocalisse. Visivamente, Lang rimane fedele all'estetica che ha contribuito a definire. Le ombre sono lame di buio che tagliano lo spazio, gli interni sono claustrofobici, labirintici, prigioni mentali prima che fisiche. Il manicomio, con le sue vetrate e i suoi corridoi asettici, non è un luogo di cura ma un laboratorio in cui la follia viene coltivata e perfezionata, pronta per essere scatenata sul mondo esterno.

Il film opera su un piano meta-testuale di vertiginosa intelligenza. Mabuse, lo scrittore catatonico, è una perversa figura d'autore, un regista che scrive una sceneggiatura che i suoi "attori" — i criminali, e infine lo stesso Baum — sono costretti a interpretare alla lettera, pena la morte. È un'inquietante riflessione sul potere della narrazione, sulla capacità di una storia di plasmare la realtà. Il criminale che esita, che sviluppa una coscienza, viene eliminato non perché disobbedisce a un capo, ma perché devia dal "testo sacro". Lang, noto per il suo controllo autocratico sul set, mette in scena una parabola quasi auto-ironica sul regista come demiurgo e manipolatore. La volontà del creatore si impone sulla materia (gli attori, la scenografia, la trama) in modo assoluto, e il film stesso diventa una macchina ipnotica che impone la sua visione allo spettatore, proprio come Mabuse impone la sua ai suoi accoliti. In questo senso, il film è l'equivalente cinematografico di un romanzo di Thomas Pynchon, dove la paranoia non è una malattia mentale ma l'unica risposta razionale a un mondo governato da cospirazioni invisibili e forze che operano appena oltre il velo della percezione.

A contrastare questa marea di follia organizzata c'è il Commissario Lohmann, interpretato ancora una volta dal magnifico Otto Wernicke. Lohmann è l'incarnazione della razionalità pragmatica, del buon senso della classe operaia, un baluardo di normalità in un mondo che scivola verso l'assurdo. Le sue indagini sono un capolavoro di logica deduttiva, ma si scontrano continuamente con l'illogico. Come si arresta un fantasma? Come si processa un'idea? Lohmann è un personaggio novecentesco che si trova ad affrontare un orrore pienamente novecentesco: il crimine ideologico, il terrore come fine e non come mezzo. La sua lotta è quella della Ragione illuminista contro un Mito oscuro e potente che riemerge dalle profondità della psiche collettiva. Accanto a lui, la figura di Kent, il giovane ex-criminale redento dall'amore, appare quasi come un residuo melodrammatico, un'ancora a un'umanità che il film suggerisce essere obsoleta, impotente di fronte alla magnitudine del piano di Mabuse.

La storia della produzione del film è leggendaria quanto il film stesso. Joseph Goebbels, neo-ministro della Propaganda del Reich, vide nella pellicola una potenza artistica innegabile ma anche un'allegoria fin troppo trasparente del potere ipnotico e distruttivo del Nazionalsocialismo, con il suo culto di un leader e la sua promessa di rigenerazione attraverso la violenza. Il motto dei criminali, che inneggia alla distruzione totale per creare un uomo nuovo, riecheggiava sinistramente la retorica del partito. Il film fu prontamente bandito. L'aneddoto, forse apocrifo ma troppo perfetto per non essere vero, vuole che Goebbels abbia convocato Lang, gli abbia comunicato il bando e, nella stessa conversazione, gli abbia offerto la direzione del cinema del Terzo Reich. Lang, intuendo la natura faustiana del patto, fuggì da Berlino quella notte stessa, lasciandosi tutto alle spalle. L'arte si era rivelata così profetica, così vicina al nervo scoperto della Storia, che il potere che essa stessa prefigurava tentò prima di silenziarla e poi di cooptarla.

Il testamento del dottor Mabuse è molto più di un thriller o di un film di gangster. È un saggio sulla natura del potere nell'era della riproducibilità tecnica, un'analisi della seduzione del totalitarismo e un'esplorazione della fragilità della mente umana. È il punto di congiunzione tra l'Espressionismo tedesco e il futuro film noir americano, con la sua paranoia, i suoi eroi stanchi e le sue città corrotte dall'interno. Mabuse non è un semplice supercriminale alla Fantômas; è l'archetipo del burattinaio invisibile, il precursore di ogni mente che trama nell'ombra, dal Dottor Stranamore ai cospiratori di The Parallax View, fino alle intelligenze artificiali rinnegate del cyberpunk che infettano la rete globale. È la dimostrazione che l'orrore più grande non è la violenza fisica, ma la sottomissione della volontà individuale a un'idea totalizzante. Lang ci mostra che il vero manicomio non è l'edificio che rinchiude Mabuse, ma il mondo stesso, sempre pronto a cadere preda del prossimo Vangelo del caos, scritto da un folle in una stanza buia. Il testamento è stato scritto. E la sua esecuzione è solo una questione di tempo.

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