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Il Treno

1964

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Il Treno è un thriller di guerra che rinuncia quasi del tutto allo spionaggio per concentrarsi sul lavoro. È un film sulla fisica della resistenza. Non è una battaglia di ideologie urlate, ma una guerra di orari ferroviari, di pressione del vapore e di metallo contro metallo. È una sinfonia industriale in bianco e nero, un monumento alla fatica, al sudore e al peso insopportabile della responsabilità.

Siamo nell'agosto del 1944. Gli Alleati stanno marciando su Parigi. Per l'occupazione tedesca è la fine. Ma il colonnello Franz von Waldheim (Paul Scofield) non è un soldato comune; è un esteta, un intellettuale che crede veramente nel valore eterno dell'arte, anche se la sta rubando. Ha un ultimo compito: caricare su un treno speciale il tesoro della Francia—le tele "degeneri" di Picasso, Renoir, Miró, Degas—e spedirlo in Germania. Di fronte a lui non c'è un esercito, ma un capostazione della Resistenza, Labiche (Burt Lancaster). E qui il film pone la sua domanda centrale, una domanda che molti film di guerra evitano: cosa vale di più? Un capolavoro di Renoir o la vita di un ferroviere? La domanda non è retorica. Labiche, all'inizio, è brutalmente pragmatico: non rischierà i suoi uomini per dei "quadri".

Il genio di Frankenheimer, e la performance perfetta di Lancaster, sta nel trasformare questo conflitto filosofico in un problema ingegneristico. Lancaster, con il suo passato da acrobata circense, non "interpreta" un lavoratore; è un lavoratore. La sua fisicità è il motore del film. Lo vediamo sudare, arrampicarsi, manovrare leve, calcolare i rischi con la precisione di un professionista. Il Treno è forse il più grande film mai realizzato sul sabotaggio come forma di lavoro qualificato. Non si tratta di far saltare in aria il treno—l'arte andrebbe distrutta—ma di fermarlo. Di ritardarlo. Di giocare una partita a scacchi logistica contro l'efficienza tedesca, usando come pezzi solo locomotive obsolete, scambi difettosi e una profonda conoscenza del territorio. La macchina da presa (di Jean Tournier e Walter Wottitz) non filma i volti, filma i pistoni, il carbone, il grasso, la ghisa. Il bianco e nero non è una scelta stilistica, è una necessità industriale che rende il fumo più denso e il metallo più pesante.

Il film è una lezione di suspense costruita non sul "se", ma sul "come". La sequenza del bombardamento alleato sulla stazione di smistamento è un capolavoro di caos controllato: Frankenheimer usa esplosioni reali, deragliamenti reali, creando un senso di pericolo tangibile che nessun effetto digitale moderno può replicare. Ma il vero cuore del film è lo scontro tra due ossessioni. Da un lato, l'ossessione intellettuale di Von Waldheim. Paul Scofield (reduce dal trionfo di Un uomo per tutte le stagioni a teatro) gli dona una freddezza fanatica; è un uomo che rispetta la tela, ma è pronto a fucilare gli ostaggi senza battere ciglio per proteggerla. La sua brama di "bellezza" è patologica, disumanizzata. Crede di essere l'unico a poter "apprezzare" quell'arte, e quindi l'unico degno di possederla.

Dall'altro lato, l'ossessione pragmatica di Labiche. Il protagonista cambia idea sul valore dell'arte non perché improvvisamente si innamori di Picasso, ma perché l'uccisione del suo vecchio amico, Papa Boule (Michel Simon), trasforma il treno in un simbolo. Salvare quei quadri smette di essere una missione artistica e diventa un atto di orgoglio professionale e di vendetta patriottica. Il treno non deve passare. È un affare personale. Il suo scopo è sconfiggere Von Waldheim sul suo stesso campo di battaglia: la logistica. La brillante sequenza in cui la Resistenza, con un elaborato gioco di scambi e segnali stradali, fa girare in tondo il treno, facendo credere ai tedeschi di essere diretti in Germania mentre sono ancora in Francia, è un saggio di mise-en-scène pura, un thriller dove l'arma è la conoscenza della burocrazia ferroviaria.

Subentrato ad Arthur Penn (che fu licenziato dopo pochi giorni, pare perché troppo interessato alla filosofia e poco all'azione), Frankenheimer realizza un equilibrio perfetto. Tutta la filosofia di Penn è ancora lì, ma è raccontata attraverso l'azione. Il film accelera fino a un finale che è pura tragedia esistenziale. Labiche, dopo aver sacrificato tutto—i suoi uomini, la sua rete, la sua stessa umanità—ferma finalmente il treno da solo, in aperta campagna, in un ultimo atto di disperata fatica fisica. Quando Von Waldheim, sconfitto, lo raggiunge, i tedeschi hanno già fucilato gli ultimi ostaggi, i cui corpi giacciono a terra accanto alle casse di legno marchiate "Gauguin" e "Matisse".

Il colonnello, ancora impeccabile, pronuncia la frase che definisce il film: "La bellezza appartiene a chi sa apprezzarla". Von Waldheim guarda i quadri; Labiche, coperto di fango e sangue, guarda i corpi dei suoi amici. La domanda iniziale del film ("Vale di più l'arte o la vita?") torna con una violenza inaudita. Labiche non risponde a parole. Solleva la sua mitragliatrice. L'atto finale non è una soluzione filosofica, è un'esecuzione. Il Treno non ci dà una risposta facile. Ci lascia in quel silenzio finale, a contemplare le macerie della civiltà—i quadri nelle casse e gli uomini nel fango—e ci costringe a chiederci quale delle due cose rappresenti davvero il "Paradiso" e quale l'"Inferno".

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