Il volo
1986
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Regista
L’inversione di un aereo di linea, sospeso a testa in giù contro un cielo indifferente, è un’immagine talmente potente da rischiare di fagocitare l’intero film che la contiene. Nelle mani di un altro regista, la sequenza del disastro aereo de Il volo sarebbe stata il vertice spettacolare, il centro di gravità attorno a cui far orbitare una narrazione più convenzionale di eroismo e redenzione. Ma Robert Zemeckis, tornato alla carne e al sangue del live-action dopo una lunga Odissea nella uncanny valley della performance capture, non è mai stato un regista convenzionale. Qui, utilizza la sua maestria tecnica, quel controllo demiurgico sulla macchina da presa che ha definito la sua carriera, non per celebrare il miracolo, ma per orchestrare il prologo di una catabasi. L'incredibile manovra che salva 96 anime su 102 non è la storia; è il reagente chimico che costringe il protagonista, il comandante Whip Whitaker, a confrontarsi con una caduta ben più lenta, vischiosa e terrificante: la propria.
Whip Whitaker, incarnato da un Denzel Washington in stato di grazia titanica, è un antieroe che sembra uscito dalle pagine più cupe del Grande Romanzo Americano. È un uomo scisso, un paradosso ambulante. In cabina di pilotaggio, anche sotto l'effetto di alcol e cocaina, è un dio della macchina, un prodigio di istinto e competenza la cui "grazia sotto pressione" hemingwayana è potenziata chimicamente. A terra, è un disastro umano, un buco nero di bugie, egoismo e negazione che consuma ogni relazione. La performance di Washington è un capolavoro di fisica attoriale: non si limita a "interpretare" un alcolista, ma ne abita la fisiologia, il respiro affannoso, il sudore acido, lo sguardo che alterna una spavalderia tagliente a un'improvvisa, abissale disperazione. È un Icaro moderno che non precipita per aver sfidato il sole, ma che vola deliberatamente dentro la tempesta perché solo nel caos estremo del pericolo si sente vivo, o forse, abbastanza anestetizzato da non sentire il resto.
Zemeckis costruisce il film su questa antinomia fondamentale, ingannando deliberatamente lo spettatore. Ci attira con la promessa di un thriller procedurale, un dramma investigativo sulla scia di tanti film catastrofici in cui si analizzano scatole nere e si cercano capri espiatori. Ma l'indagine della NTSB, pur essendo il motore della trama, diventa presto un rumore di fondo. Il vero mistero non è cosa sia andato storto nel velivolo, ma cosa si è irrimediabilmente rotto nell'anima di Whip. Il film devia dalla traiettoria del genere e si trasforma in un dramma da camera claustrofobico, dove la vera prigione non è quella che attende il pilota, ma quella che si è costruito da solo, una bottiglia alla volta. È una mossa narrativa audace, che ricorda il modo in cui Alfred Hitchcock usava il "MacGuffin" non come fine, ma come pretesto per esplorare le ossessioni e le psicosi dei suoi personaggi. Qui, il MacGuffin è l'inchiesta stessa, un conto alla rovescia che non scandisce la scoperta di una verità tecnica, ma l'inevitabile implosione di una menzogna esistenziale.
La discesa di Whip Whitaker nel suo inferno personale riecheggia i grandi ritratti dell'alcolismo della letteratura e del cinema, ma con una torsione squisitamente contemporanea. Se il Don Birnam di Ray Milland in Giorni perduti di Billy Wilder era un uomo perseguitato dalla sua dipendenza in un mondo che la trattava come un vizio morale, Whip vive in un'era post-terapeutica, dove il linguaggio della "malattia" e del "recupero" è onnipresente. Eppure, lui lo rifiuta. La sua non è la disperazione esistenziale del Ben Sanderson di Nicolas Cage in Via da Las Vegas, che beve per annientarsi. Whip beve per funzionare, per mantenere in piedi l'impalcatura del genio arrogante, del pilota infallibile. La sua tragedia è quella dell'uomo eccezionale che crede la propria eccezionalità una licenza per l'autodistruzione. È un personaggio che John Cheever avrebbe potuto scrivere, un uomo dei sobborghi apparentemente perfetto la cui vita interiore è un pantano di alcol e segreti, trasportato però in un contesto di responsabilità e conseguenze su scala nazionale.
Attorno a lui, Zemeckis e lo sceneggiatore John Gatins dispongono un universo di personaggi che fungono da specchi e tentatori. C'è l'avvocato Hugh Lang (un Don Cheadle misurato e pragmatico) e il rappresentante del sindacato Charlie Anderson (Bruce Greenwood), figure del sistema che sono disposte a costruire un castello di menzogne pur di salvare "l'eroe" e, con lui, l'immagine della compagnia aerea. Rappresentano la logica del mondo: il risultato (96 vite salvate) cancella il peccato del processo (un pilota ubriaco). Poi c'è Nicole (Kelly Reilly), la tossicodipendente che incontra Whip in ospedale. È il suo doppio, la sua possibile via di fuga verso una sobrietà che lui inizialmente disprezza, vedendola come una debolezza. E infine, c'è Harling Mays, lo spacciatore interpretato da un John Goodman straripante e mefistofelico. Con la sua coda di cavallo, la sua parlantina da rockettaro e la sua valigetta di vizi, Harling non è un semplice pusher; è la personificazione della tentazione, un demone allegro che irrompe sulla scena al suono di "Sympathy for the Devil" per offrire a Whip esattamente ciò che desidera, spingendolo sempre più a fondo nell'abisso.
Inserito nel suo contesto culturale, Il volo arriva in un'America post-11 settembre che ha elevato i piloti a uno status quasi mitologico, ultimo baluardo di competenza e controllo in un mondo percepito come caotico e insicuro. Il film di Zemeckis compie un'opera di iconoclastia radicale e necessaria, smontando questa icona per mostrare l'uomo fallibile che vi si nasconde dietro. In un'epoca segnata dalle cadute pubbliche di eroi sportivi e figure pubbliche (il pensiero corre a Lance Armstrong o Tiger Woods), il film intercetta un'ansia collettiva sulla discrepanza tra immagine pubblica e realtà privata, sulla fragilità delle narrazioni eroiche che costruiamo per rassicurarci. La sceneggiatura di Gatins, che pare abbia circolato a Hollywood per quasi un decennio, trova finalmente il suo momento perfetto, un'epoca ossessionata dall'autenticità ma, al contempo, maestra nell'arte della performance e della gestione dell'immagine.
Il culmine del film non avviene in aria, ma in una stanza asettica, durante un'udienza. È qui che Il volo completa la sua trasformazione da thriller a tragedia morale. A Whip viene offerta un'ultima, definitiva via di fuga, una menzogna plausibile che potrebbe salvarlo dalla prigione e consacrarlo come eroe. La sua scelta di dire la verità, di confessare il suo alcolismo di fronte al mondo, non è un semplice colpo di scena. È il suo vero, unico atto eroico. Non è stato eroico nel salvare l'aereo, perché l'ha fatto da ubriaco, mettendo tutti a rischio. L'eroismo, ci dice Zemeckis, risiede in quel singolo momento di terrificante onestà, nell'accettare le conseguenze e nel far finalmente atterrare la propria vita, dopo anni di volo turbolento e senza meta. La scena finale, che lo vede in prigione, sereno, mentre parla con suo figlio, non è un lieto fine edulcorato, ma la rappresentazione di una pace conquistata al prezzo più alto: la libertà. È una libertà interiore che vale più di quella fisica.
Il volo è un'opera stratificata e potente, un film per adulti nel senso più nobile del termine. È la dimostrazione di un regista al vertice della sua arte, che mette la sua celebrata perizia tecnica al servizio di una storia intimista e straziante. È un film che pone una domanda scomoda e profondamente umana: un'azione straordinaria può redimere una vita di errori? O, al contrario, un difetto fatale può invalidare un atto di eroismo? Rifiutando risposte facili, Zemeckis ci lascia sospesi, come il suo aereo, nell'aria rarefatta dell'ambiguità morale, a contemplare la complessa, spesso contraddittoria, natura dell'essere umano. E in questa contemplazione, il film raggiunge la sua altitudine di crociera, volando ben al di sopra del dramma convenzionale per atterrare nel territorio del grande cinema.
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