In Bruges - La coscienza dell'assassino
2008
Vota questo film
Media: 4.43 / 5
(7 voti)
Regista
Un limbo fiabesco con una pistola puntata alla tempia. Se si dovesse distillare in una singola immagine l’opera prima di Martin McDonagh, drammaturgo prestato al cinema con la grazia di un elefante in una cristalleria e la precisione di un orologiaio svizzero, sarebbe questa. In Bruges si presenta come un gangster movie deviato, un noir intriso di umorismo nerissimo, ma sotto la sua superficie verbosa e sfrontatamente profana, pulsa il cuore di una favola morale medievale, una sorta di Everyman del ventunesimo secolo con sicari al posto di allegorie. La città belga del titolo non è una semplice ambientazione; è il personaggio principale, un Purgatorio gotico di mattoni e canali dove due anime (forse) dannate sono costrette a un’attesa che sa di giudizio.
La premessa è di una semplicità disarmante, quasi pinteriana. Due killer irlandesi, il veterano riflessivo Ken (un Brendan Gleeson monumentale nella sua umanità) e il giovane e nevrotico Ray (un Colin Farrell che qui trova il ruolo della vita, un fascio di colpa, rabbia e candore infantile), vengono spediti a Bruges dal loro boss, l'enigmatico e temibile Harry (Ralph Fiennes), dopo un colpo andato tragicamente storto. Devono "mantenere un profilo basso" e attendere istruzioni. Questa attesa, che riecheggia quella di Vladimir ed Estragon in un Aspettando Godot armato fino ai denti e intriso di birra trappista, diventa il motore di un’esplorazione filosofica sulla colpa, la redenzione e la possibilità (o impossibilità) di un codice morale in un mondo che sembra averne perso ogni traccia.
Bruges stessa è una sineddoche del loro stato spirituale. Per Ken, uomo di una certa cultura e sensibilità, è un museo a cielo aperto, un luogo di bellezza e storia da contemplare. Per Ray, tormentato da un peccato indicibile che lo consuma dall'interno, è “una merda” (a shithole), una prigione dorata e noiosa. Il loro peregrinare tra chiese, musei e piazze medievali non è turismo, ma un confronto forzato con l'arte e la storia, che a loro volta riflettono la loro condizione. La scena in cui osservano il Giudizio Universale di Hieronymus Bosch non è un semplice intermezzo culturale; è il film che si guarda allo specchio. Le figure grottesche e tormentate del trittico fiammingo, sospese tra salvezza e dannazione eterna, sono l'esternalizzazione dell'inferno interiore di Ray. McDonagh, con un colpo da maestro meta-testuale, ci dice: "Vedete? Questa storia l'hanno già dipinta 500 anni fa. Cambiano solo le armi e l'accento".
La scrittura di McDonagh, affinata su palcoscenici londinesi e newyorkesi, è la vera protagonista. Il dialogo è un torrente in piena di arguzia, volgarità e lampi di inaspettata poesia. È un linguaggio che mescola l'alto e il basso con una disinvoltura che ricorda un Tarantino cresciuto a pane, Dostoevskij e pub irlandesi. Le conversazioni, spesso surreali e comicamente pedanti (la discussione su una potenziale guerra tra neri e nani), non sono mai gratuite. Servono a definire i personaggi, a mascherare il loro dolore e, infine, a rivelare le loro verità più profonde. Sotto lo strato di cinismo e battute al vetriolo, c'è un profondo senso di malinconia cattolica, un'ossessione per il peccato originale e la ricerca di un'assoluzione che sembra sempre fuori portata. Il titolo italiano, La coscienza dell'assassino, sebbene didascalico, coglie questo nucleo tematico: il film è un'immersione nella psiche di un uomo che si crede irredimibile.
Colin Farrell offre una performance elettrica e vulnerabile. Il suo Ray è un bambino intrappolato nel corpo di un sicario, la cui spavalderia è un sottilissimo strato di ghiaccio su un abisso di auto-disprezzo. La sua confessione a Ken, il racconto del "lavoro" a Londra, è un pezzo di recitazione straziante che trasforma un personaggio potenzialmente sgradevole in una figura tragica di proporzioni quasi shakespeariane. Brendan Gleeson, in contrappunto, è la roccia, la figura paterna. Il suo Ken incarna la lotta tra la lealtà a un codice criminale e l'empatia per un'anima ferita. La sua decisione di proteggere Ray, sfidando l'ordine di Harry, è il fulcro morale del film, un atto di grazia in un mondo che ne è privo.
E poi c'è Harry Waters. Ralph Fiennes, in un'apparizione che occupa l'ultimo atto ma domina l'intero film, crea uno degli antagonisti più memorabili del cinema moderno. Harry non è un semplice sociopatico; è un uomo di principi. Principi ferrei, distorti, omicidi, ma principi. La sua furia non nasce dalla malvagità fine a se stessa, ma dalla violazione di un codice etico che, nella sua mente, dà ordine al caos. Il suo monologo al telefono, in cui spiega con calma glaciale le sue intenzioni, è un capolavoro di minaccia e caratterizzazione. Il fatto che il suo principio più sacro sia "non uccidere i bambini" lo trasforma da villain a una sorta di angelo sterminatore, una forza della natura morale che si abbatte su Bruges per ristabilire un equilibrio cosmico. La sua risoluzione finale è la prova definitiva della sua coerenza, un gesto di logica tanto terrificante quanto, nel suo contorto universo, onorevole.
In Bruges è un’opera che vive di contrasti: la bellezza da cartolina della città e la brutale violenza che vi esplode; l'umorismo slapstick (la gag del karate all'attore nano) e la tragedia esistenziale; il linguaggio scurrile e le domande teologiche. McDonagh dirige con un'economia visiva che mette in risalto la performance e la sceneggiatura, lasciando che la fotografia di Eigil Bryld catturi la città in una luce invernale, quasi eterea, che ne accentua l'atmosfera da sogno febbrile. Il film si inserisce in quella corrente post-moderna del cinema crime che decostruisce i suoi stessi tropi, ma a differenza di molti suoi epigoni, non si accontenta del gioco citazionista. Usa il genere come un cavallo di Troia per contrabbandare temi di una profondità sorprendente.
In un'epoca cinematografica spesso dominata dalla formula e dal cinismo sterile, In Bruges si erge come un'anomalia gloriosa. È un film che crede ancora nel potere delle parole, nella complessità dei personaggi e nella capacità del cinema di esplorare i grandi dilemmi dell'esistenza umana senza fornire risposte facili. Il finale, sospeso tra la vita e la morte, è la chiusura perfetta per una storia ambientata in un luogo che non è né paradiso né inferno. Forse, suggerisce McDonagh, la redenzione non consiste nel raggiungere una meta, ma nel disperato, goffo e sanguinoso tentativo di muoversi nella direzione giusta. Forse, l'inferno è davvero solo l'impossibilità di perdonare se stessi, e Bruges, con le sue cigni, i suoi campanili e i suoi turisti, è il posto più bello del mondo per capirlo. Un capolavoro crudele, esilarante e profondamente umano.
Attori Principali
Galleria







Commenti
Loading comments...
