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In the Mood for Love

2000

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Media: 4.50 / 5

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L’amicizia tra un uomo e una donna nella Hong Kong del 1962 si trasformerà in una raffinata danza di avvicinamento scoprendosi affini in ogni cosa, ma rinunciando stoicamente all’amore. Quella che Wong Kar-wai mette in scena non è una semplice storia, ma una coreografia dell'anima, un valzer esitante e malinconico danzato nei corridoi stretti di un condominio che diventa il labirinto dei loro desideri repressi. L’uomo e la donna, il signor Chow e la signora Chan, vicini di casa, scoprono infatti che i rispettivi coniugi hanno una relazione clandestina l’uno con l’altro, e si trovano a condividere questa grottesca situazione. La loro relazione, però, non nasce come reazione, ma come una sorta di recita fantasmatica: si incontrano per provare a capire "come deve essere iniziato", mettendo in scena le presunte conversazioni e i gesti dei loro coniugi fedifraghi. In questo teatro dell'ipotesi, finiscono per recitare il copione del proprio nascente amore, un amore che, per un patto di onore e di orgoglio, hanno giurato a se stessi di non consumare mai. I due si troveranno a fare i conti con il proprio passato ma anche e soprattutto con il proprio futuro, sospesi in una Hong Kong che è essa stessa un luogo della memoria, un mondo perduto di eleganza e repressione che il regista cattura con una nostalgia quasi dolorosa.

Un film delicato e garbato questo di Kar Wai Wong, un regista davvero interessante, un autore nel senso più puro del termine, la cui opera si colloca al vertice della Seconda New Wave di Hong Kong. Con opere notevoli all’attivo come il meraviglioso Angeli Perduti (1995) o il già citato Hong Kong Express (1994), Wong ha sviluppato uno stile inconfondibile, quasi jazzistico, basato sull'improvvisazione e sulla scoperta del film durante la sua stessa, spesso caotica, lavorazione. In the Mood for Love è l'esempio più celebre di questo metodo: girato senza una sceneggiatura definitiva nell'arco di quindici mesi, il film è stato distillato da ore e ore di girato, trovando la sua forma perfetta attraverso un processo di sottrazione. Interessante, in questo senso, il fatto che il film ha avuto l’avvicendamento di due direttori della fotografia che hanno caratterizzato l’impatto visuale dell’opera con registri quasi antitetici ma senza cadere nella disarmonia, anzi, creando una sintesi visiva di una coerenza miracolosa.

Inizialmente Christopher Doyle, il sodale di sempre di Wong, ha fatto valere i suoi colori aspri e saturi che contrastano la luce soffusa di scena esaltandone la vividezza, creando quasi delle macchie di colore espressioniste. Poi a Doyle, partito per altri lidi, è subentrato il taiwanese Mark Lee Ping-bin, che ha dato risalto alla morbidezza dei chiaroscuri, modellando un gioco di ombre mai ridondante. Ma al di là di questa distinzione, la grammatica visiva del film è unitaria e potentissima. I personaggi sono costantemente spiati, incorniciati da porte, finestre, specchi, grate. Questa estetica voyeuristica non è un vezzo, ma una metafora della loro prigionia sociale e emotiva. Noi li guardiamo desiderarsi, ma non possiamo mai entrare completamente nella loro intimità, proprio come loro non possono vivere pienamente il loro amore. La tecnica dello step-printing, che crea quel caratteristico effetto di rallenti sfuocato e scattoso, trasforma le immagini in ricordi visivi, istanti sospesi e destinati a ripetersi all'infinito nella mente. È uno stile che evoca la pittura di Edward Hopper, per la sua capacità di catturare la bellezza struggente della solitudine e dell'incomunicabilità in spazi magnificamente composti.

Il regista si fa apprezzare in particolare per la sua abilità nel rendere naturali alcune complesse scene di contrapposizione dialettica dei personaggi, come un consumato cantastorie che declami in piazza le sue cortesi novelle. Ma la dialettica più profonda del film è quasi interamente non verbale. Le conversazioni più importanti avvengono negli sguardi, nelle esitazioni, nella distanza millimetrica tra due corpi in un corridoio. Il loro dialogo è un capolavoro di subtext, dove si parla di noodles e di cravatte per non parlare del cuore che si spezza.

Ottima anche l’interpretazione degli attori, con Tony Leung e Maggie Cheung che offrono una performance magistrale basata sulla sottrazione, dove ogni micro-espressione è un romanzo. E poi c'è la colonna sonora, levigata e sinuosa, vestito ideale per una storia che seduce attraverso le immagini e i suoni. Il valzer di Shigeru Umebayashi, "Yumeji's Theme", non è musica di sottofondo, è il leitmotiv dell'anima del film, un'onda di struggimento che avvolge i personaggi a ogni loro incontro mancato. E come non citare i magnifici cheongsam indossati da Maggie Cheung? Non sono semplici costumi, ma splendide gabbie di seta, una corazza di eleganza che segna il passare del tempo e riflette il suo stato emotivo, tanto impeccabile all'esterno quanto tumultuoso all'interno. Nel finale, il segreto sussurrato da Chow al muro di un tempio ad Angkor Wat è la metafora definitiva di un amore troppo perfetto per essere vissuto e troppo grande per essere dimenticato, affidato per sempre al silenzio della pietra. In the Mood for Love è un capolavoro non su un amore che è stato, ma sulla presenza assordante di un amore che non è potuto essere. E in questo, la sua bellezza è assoluta e permanente.

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