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Inception

2010

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Un disordine prestabilito dove l’occhio vaga compiaciuto mentre l’arte raffinatissima di Nolan spinge ai massimi livelli narrazione e prospettiva iconografica. Questo orchestrato caos, lungi dall'essere mera esibizione, si rivela un meticoloso calcolo spaziale e temporale, una vera e propria architettura dell'immagine che ricorda la precisione quasi kubrickiana nella composizione delle inquadrature, ma con una vertigine dinamica e un respiro narrativo che è quintessenza del cinema moderno. Ogni fotogramma è intriso di un'intenzionalità quasi pittorica, un'ossessiva ricerca della perfezione formale che sublima il caos potenziale dell'onirico in un'esperienza visiva controllata e potentemente evocativa. Le innumerevoli linee rette che compongono gli scenari urbani, le prospettive vertiginose e le geometrie impossibili non sono semplicemente effetti speciali, ma traduzioni visive di un processo mentale, di un design concettuale che definisce ogni strato della realtà costruita.

Può essere questo uno dei possibili parametri di lettura di un’opera concettualmente complessa, superbamente messa in scena con tecniche surrealiste per la ricostruzione dei sogni e del loro instabile palcoscenico. Il richiamo al Surrealismo non è casuale: Nolan non si limita a omaggiare Dalí con paesaggi urbani che si piegano su se stessi come tele liquide o a evocare Magritte attraverso la manipolazione delle percezioni e la costante interrogazione sulla vera natura della realtà. Egli attinge proprio all'essenza del movimento, esplorando l'inconscio come fonte di narrazione, dove la logica cartesiana è sospesa e il simbolismo regna sovrano. L'instabile palcoscenico dei sogni diventa così una metafora della fragilità stessa della percezione umana, un regno in cui i confini tra ciò che è tangibile e ciò che è meramente cerebrale si dissolvono con eleganza e terrore, lasciando lo spettatore in un limbo epistemologico stimolante e perturbante. È un cinema che non si accontenta di mostrare, ma che invita a dubitare, a indagare, a decifrare.

Nolan tenta l’azzardo di trasporre su pellicola ciò che risiede nella mente umana costruendoci intorno un accattivante reticolo narrativo. Non è la prima volta che il regista si avventura nei labirinti della psiche: da Memento, indagine sulla memoria frammentata e sull'affidabilità della narrazione soggettiva, a The Prestige, esplorazione dell'illusione e del doppio e del sacrificio personale in nome dell'arte, fino a Interstellar, viaggio nelle dimensioni del tempo e dello spazio influenzato dall'amore e dalla perdita, la sua filmografia è un palinsesto di indagini sulla natura della realtà soggettiva e oggettiva. In Inception, tuttavia, l'ambizione è esplicitamente ontologica: non si tratta solo di capire come la mente funzioni, ma di manipolare la sua stessa struttura fondante, il nucleo delle idee che ci definiscono. Il reticolo narrativo, con i suoi livelli annidati e le sue regole interne, riflette la complessità del subconscio, sfidando lo spettatore a districarsi in un puzzle narrativo tanto quanto i personaggi sono costretti a farlo nei loro sogni, in un'esibizione virtuosa di sceneggiatura che si srotola su più piani temporali e spaziali simultaneamente.

La storia è incentrata sulla figura di Cobb, la cui abilità di inserirsi nei sogni delle persone e prelevare informazioni è richiesta in ogni angolo del globo. Egli è l'archetipo dell'eroe-anti-eroe nolano, gravato da un passato traumatico e da una missione personale che si intreccia indissolubilmente con quella professionale. La sua maestria nell'estrazione onirica, un'arte che lo rende simultaneamente demiurgo e parassita, lo posiziona al centro di un dilemma etico profondo: fino a che punto è lecito violare la mente altrui? Cobb, tormentato dal fantasma della moglie Mal, diventa il Virgilio di questa discesa infernale, ma anche il suo Caronte, incapace di sottrarsi al suo destino di traghettatore di coscienze, condannato a navigare tra i detriti del proprio subconscio mentre cerca di colonizzare quello altrui.

Cobb viene contattato da Saito, potente industriale giapponese, che gli commissiona l’operazione inversa: impiantare un’idea nella mente di un suo concorrente, in maniera tale da indurlo a disgregare l’azienda paterna. Questa è la vera scommessa del film: l'atto dell'Inception, dell'innestare un'idea così profondamente da farla percepire come propria, è un gesto di suprema manipolazione psicologica. È un tema che richiama non solo le distopie cyberpunk come Neuromancer di Gibson o Ubik di Dick, ma anche antiche riflessioni filosofiche sulla natura della persuasione e del libero arbitrio, ponendo il quesito socrateo sulla conoscenza di sé. Il film pone l'interrogativo bruciante: se un'idea può essere impiantata, chi siamo noi veramente, e quanto delle nostre convinzioni è autenticamente nostro? La "semplice idea" che Saito intende instillare è il vero motore della narrazione, un'astrazione che si materializza nel viaggio più audace.

Inizierà una discesa à la Verne attraverso i livelli onirici dell’uomo, giù fino al profondo del subcosciente, per innestare il germoglio indelebile di un’idea. Questa metafora del viaggio, cara a Verne con le sue "discese" al centro della terra o sotto i mari, qui si trasforma in un'esplorazione verticale e stratificata della psiche, un vero e proprio "viaggio al centro della mente" che echeggia la complessità archetipica della psicologia junghiana. Ogni livello di sogno è una dimensione con proprie regole fisiche e temporali, un universo a sé stante che il team di Cobb deve imparare a costruire, navigare e manipolare, dal realismo granulare del primo strato onirico alla città in rovina del Limbo. L'architetto del sogno diventa il vero deus ex machina di questi mondi effimeri, e la sfida non è solo tecnica, ma creativa: plasmare un labirinto abbastanza convincente da far emergere l'idea desiderata senza destare sospetti, una vera e propria ingegneria onirica.

Allegorico, metaforico, surreale: gli aggettivi per un film come questo potrebbero sprecarsi. Ma al di là di queste etichette, Inception è una profonda meditazione sulla natura della realtà e sulla sua malleabilità. Nolan gioca con le regole non scritte di Philip K. Dick a destrutturare la Realtà privandola dei suoi costrutti. La lezione di Dick, il cui intero corpus letterario è un'ossessiva interrogazione sulla verità dietro la percezione e la cui influenza è palpabile in opere come Blade Runner o Minority Report, trova in Inception una delle sue più brillanti trasposizioni cinematografiche. Non c'è un androide o un mutante, ma la realtà stessa è il costrutto più alieno e modificabile, una finzione stratificata che può essere alterata o collassata. Il totem di Cobb, un oggetto la cui interazione fisica è l'unica ancora di salvezza per distinguere il reale dall'onirico, diventa l'emblema di questa ricerca disperata di un appiglio in un universo sempre più ambiguo, un simbolo di un'identità frammentata.

Durante la sua narrazione la sensazione di alienazione è palpabile, e il dubbio angosciante realtà-sogno divora ogni punto di riferimento. L'immersione dello spettatore in questo stato di perenne incertezza è uno degli effetti più potenti del film. Nolan, coadiuvato da una colonna sonora di Hans Zimmer che alterna il grandioso al sottile, creando un tappeto sonoro che è esso stesso parte integrante della destabilizzazione sensoriale e emotiva, ci obbliga a mettere in discussione ogni certezza. Il finale aperto, con la trottola di Cobb che continua a girare, è un colpo di genio narrativo che non offre risposte consolanti, ma eleva l'incertezza a condizione esistenziale. È un invito a considerare che forse la distinzione tra sogno e realtà è, in fondo, solo una convenzione, e che la vera felicità, o il vero tormento, possa risiedere nella nostra personale accettazione di questa fluidità. Inception non è solo un blockbuster di raffinata ingegneria visiva; è un'opera che, con la sua brillantezza intellettuale, ci spinge a navigare le profondità della nostra coscienza, e a interrogarci sul filo sottile che separa il nostro mondo percepito da quello puramente immaginato. Un'esperienza cinematografica che persiste, come un'idea ben impiantata, a lungo dopo i titoli di coda, risuonando con la stessa ambiguità che rende la nostra stessa esistenza un meraviglioso e terrificante sogno ad occhi aperti.

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