Inside Out
2015
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Regista
Una delle più audaci imprese che il cinema possa tentare è la mappatura dell'invisibile. Non la fantascienza che immagina galassie lontane, ma quella cartografia speculativa dell'interiorità, la traduzione in immagini di ciò che per sua natura non ne ha: il pensiero, l'identità, l'emozione. Pete Docter, già esploratore dell'altrove senile in Up e dell'inframondo mostruoso in Monsters, Inc., si spinge con Inside Out nell'ultima frontiera, il final frontier che non è lo spazio ma la psiche. Il risultato è un'opera di una densità filosofica e di un'intelligenza visiva tali da farla assomigliare meno a un film d'animazione per famiglie e più a un saggio di psicologia cognitiva riscritto da Italo Calvino e messo in scena da Michel Gondry.
Il dispositivo narrativo è di una semplicità disarmante, quasi allegorica nel senso più medievale del termine, come un Roman de la Rose psichedelico. Nella mente dell'undicenne Riley, un quartier generale ospita le cinque emozioni primarie personificate: Gioia, una sorta di leader demiurgica e instancabile ottimista; Tristezza, la sua antitesi apparentemente inetta e problematica; Rabbia, un piccolo manager furibondo; Paura, un consulente per la sicurezza perennemente in ansia; e Disgusto, un'esperta di stile e repulsioni sociali. Esse operano su una console che determina le reazioni di Riley, e i suoi ricordi, sfere cromatiche, alimentano delle "Isole della Personalità" che ne definiscono l'identità. È una topografia dell'anima che ricorda le città invisibili calviniane, dove ogni isola – Famiglia, Onestà, Hockey, Stupidera – è una costruzione fantastica che rappresenta un pilastro del sé.
Il film, tuttavia, trascende rapidamente la sua premessa da sit-com concettuale quando il trauma del trasloco di Riley dal Minnesota a San Francisco innesca una crisi. Gioia e Tristezza vengono accidentalmente espulse dal quartier generale, perdendosi nel labirinto della Memoria a Lungo Termine. Qui Inside Out rivela la sua vera natura: non è un'avventura, ma una peripezia esegetica. La loro odissea attraverso i meandri della mente diventa un'esplorazione visiva di concetti astratti. La "Produzione Sogni" è uno studio cinematografico surrealista, un omaggio tanto a Hollywood quanto a Buñuel, dove le paure inconsce e i desideri repressi vengono messi in scena. L'abisso della "Discarica della Memoria" è un luogo di oblio terrificante, un Lete digitale dove i ricordi sbiadiscono fino a diventare polvere. È una visione quasi dantesca, un inferno della dimenticanza.
Ma il colpo di genio più puro, il momento in cui il film si eleva a vertigini di meta-cinema e avanguardia, è la sequenza del "Pensiero Astratto". Per sfuggire alla loro prigione, i personaggi attraversano una scorciatoia che li de-costruisce progressivamente, trasformandoli da figure tridimensionali a forme cubiste, poi a pure linee bidimensionali, e infine a semplici macchie di colore. È una lezione di storia dell'arte del XX secolo condensata in due minuti, un passaggio da Picasso a Mondrian attraverso la logica di un cartone animato di Chuck Jones. In quel momento, Pixar non sta solo raccontando una storia; sta riflettendo sulla natura stessa della rappresentazione, smontando i suoi stessi strumenti espressivi con un'audacia intellettuale che lascia senza fiato.
Il cuore pulsante del film, tuttavia, risiede nel rapporto dialettico tra Gioia e Tristezza. Gioia incarna l'etica edonistica e performativa della cultura occidentale contemporanea, in particolare quella americana: l'incessante, quasi obbligatoria, ricerca della felicità. La sua missione è proteggere Riley da ogni forma di negatività, sigillando i ricordi felici in un oro puro e immutabile. Tristezza, al contrario, è vista come un bug nel sistema, un'emozione da contenere, un'anomalia. L'intero arco narrativo di Gioia è una lenta e dolorosa de-programmazione da questa ideologia. Scoprirà che la funzione di Tristezza non è sabotare la felicità, ma generare empatia, connessione e catarsi. La scena rivelatrice, in cui Gioia comprende che uno dei ricordi più felici di Riley è nato da un momento di tristezza (la squadra di hockey che consola la bambina dopo una sconfitta), è uno scarto semantico di portata rivoluzionaria per un prodotto culturale di massa. Inside Out compie l'apoteosi della malinconia, la riabilitazione filosofica del dolore come elemento necessario e costruttivo dell'esperienza umana. Il film ci dice che non si può essere pienamente felici senza aver conosciuto la tristezza, che le nostre memorie più complesse e significative sono agrodolci, venate di blu e di oro. È una lezione che Marcel Proust ha impiegato migliaia di pagine a spiegare, qui distillata in un'epifania visiva.
In questa odissea psicologica, Bing Bong, l'amico immaginario di Riley, un elefante rosa di zucchero filato, funge da Virgilio chimerico. È il fantasma del passato, l'incarnazione di un'infanzia che sta svanendo. Il suo sacrificio nella Discarica della Memoria, dove si lascia svanire per permettere a Gioia di salvarsi, è uno dei momenti più strazianti della storia dell'animazione. È più della morte di un personaggio; è la rappresentazione della morte di una fase della vita. È la consapevolezza che crescere significa necessariamente perdere qualcosa, dimenticare. In quel momento, il film non parla più solo a Riley, ma a ogni spettatore che abbia mai dovuto abbandonare un mondo interiore per far spazio a quello adulto.
Contestualizzare Inside Out nel 2015 significa riconoscerne il tempismo perfetto. Uscito in un'epoca di crescente consapevolezza sulla salute mentale e di un dibattito pubblico sempre più incentrato sull'intelligenza emotiva, il film ha fornito un vocabolario accessibile e potente a genitori e figli per parlare di sentimenti complessi. La consulenza di psicologi di fama come Paul Ekman e Dacher Keltner non è un semplice aneddoto produttivo, ma la chiave della sua profondità e della sua accuratezza scientifica. Il film non inventa una psicologia di comodo, ma traduce in metafora visiva decenni di ricerca sulle emozioni, rendendo concetti come la "memoria emotiva" (il fatto che i ricordi vengano colorati dall'emozione del momento) il fulcro della sua narrazione.
Alla fine, quando Gioia e Tristezza tornano al quartier generale, la console di controllo è stata aggiornata. È più grande, più complessa, con nuovi pulsanti che permettono di creare ricordi emotivamente misti. È la rappresentazione visiva della maturità emotiva: l'accettazione che l'identità non è un monolite, ma un mosaico di sentimenti complessi e spesso contraddittori. Inside Out non è semplicemente un capolavoro di animazione; è un'opera di filosofia pop, un trattato di fenomenologia per l'era digitale. Con l'audacia di un film sperimentale e il cuore di una fiaba universale, Pete Docter non ha solo creato un film, ma ha dato una forma e un nome al paesaggio inesplorato che tutti noi abitiamo. E nel farlo, ci ha mostrato che a volte, per ritrovare la strada di casa, bisogna prima perdersi nel blu.
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