Intrigo Internazionale
1959
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Regista
Dinanzi ad opere come queste a volte si fatica a trovare le parole che aiutino a descriverle. Non si tratta solo di capolavori, ma di vertici insuperabili di un'arte che, attraverso la narrazione e la pura grammatica visiva, riesce a trascendere la sua stessa natura, elevandosi a archetipo. Intrigo Internazionale, nella sua brillantezza quasi chirurgica, è proprio questo: una dimostrazione di cinema puro, di una macchina narrativa che si muove con la precisione di un orologio svizzero, senza un ingranaggio fuori posto.
Semplicemente un film perfetto con un Cary Grant che giganteggia e impartisce una lezione di stile. Grant non è qui semplicemente il divo affascinante che siamo abituati ad ammirare, ma il veicolo impeccabile attraverso il quale Hitchcock disseziona l'identità borghese, la sua fragilità intrinseca quando strappata dal contesto rassicurante della routine. Il suo Roger Thornhill è l'incarnazione del "wrong man", un topos hitchcockiano per eccellenza, ma qui elevato a un livello di sofisticazione e angoscia esistenziale senza precedenti.
Hitchcock, come al solito, tira magistralmente le fila di una spy story con taglio brillante: un pubblicitario, suo malgrado, si trova al centro di un equivoco che lo vede vestire i panni di una spia impalpabile. Questo equivoco, il celebre "MacGuffin" nella terminologia del Maestro, non è che un pretesto per scatenare una vertiginosa corsa contro il tempo e contro la propria stessa identità. Il film si rivela così non tanto una mera avventura di spionaggio, quanto una profonda riflessione sulla natura della percezione e della realtà, un gioco di specchi dove l'apparenza è tutto e la sostanza si dissolve sotto gli occhi dello spettatore, esattamente come l'innocenza di Thornhill.
Una serie incredibile di avventure gli pioveranno addosso calandolo nella parte, suo malgrado, della spia consumata. Ogni inciampo, ogni disavventura, non fa che plasmare Thornhill in qualcosa che non è, forzandolo ad assumere maschere e ruoli che mai avrebbe immaginato. Questa metamorfosi forzata è uno dei fulcri tematici, esplorando la malleabilità dell'individuo e la facilità con cui la società e gli eventi possono ridefinire il nostro posto nel mondo.
Cary Grant apporta fascino e tecnica recitativa al personaggio principale, lo incontriamo all’inizio su Madison Avenue con un’aura grondante charme e classe che condizionano tutto il resto del film. La sua perfetta dicotomia tra l'uomo raffinato e il fuggitivo braccato è ciò che rende il personaggio così tridimensionale e credibile, nonostante le circostanze al limite dell'assurdo. La sua eleganza innata, seppur messa a dura prova, non lo abbandona mai, diventando quasi un segno distintivo della sua vulnerabilità e, allo stesso tempo, della sua resilienza.
Del resto è proprio grazie a lui che questo film funziona alla perfezione, ed ogni maschera si innesta alla successiva per dolce forza d’inerzia: il pubblicitario con la spia, la spia con l’assassino, l’assassino con il fuggitivo, il fuggitivo con l’amante, l’amante con l’innamorato. È un balletto incessante di identità che si sovrappongono e si confondono, un saggio sulla performatività del sé che anticipa di decenni dibattiti culturali sulla liquidità dell'essere. Questo gioco di ruoli, orchestrato con ineffabile maestria, è rafforzato dall'ambigua figura di Eve Kendall, interpretata da una glaciale e seducente Eva Marie Saint, la cui stessa identità è un enigma, un ulteriore strato di ambiguità che alimenta la paranoia di Thornhill e del pubblico.
Dietro ogni maschera l’ombra sardonica di Hitchcock che sorride beffardo e ci conduce là dove voleva portarci: in cima al monte Rushmore danzando sui profili dei 4 presidenti scolpiti nella roccia. Questa scelta scenografica non è casuale, ma una geniale provocazione. Profanare un monumento sacro della democrazia americana trasformandolo nel teatro di un duello mortale è l'apoteosi del cinema hitchcockiano: l'ordinario che diventa straordinario, il simbolo nazionale che si piega alla narrazione individuale. È l'audacia di un artista che non teme di mescolare il sublime con il banale, il sacro con il profano, per raggiungere il massimo impatto drammatico e visivo.
Menzione speciale per la scena migliore del film: l’imboscata in pieno deserto di un aereo che cala su Cary Grant come la Giustizia Alata di fatto frantumando il silenzio e la noia di un’attesa solitaria che si stava protraendo da qualche minuto. Quella sequenza è un'opera d'arte a sé stante, un manuale di suspense condensato in pochi minuti. Non c'è un vicolo buio, non un'ombra sospetta, solo un uomo in attesa in un paesaggio desolato e apparentemente innocuo. L'arrivo di quel biplano spruzzatore, anziché annunciare una minaccia convenzionale, irrompe con una violenza inaudita e surreale, trasformando un elemento quotidiano in un araldo di morte. È l'esempio perfetto di come Hitchcock sapesse estrarre il terrore dal cuore della normalità, un concetto che avrebbe poi perfezionato in opere come Psycho o Gli Uccelli. La sua influenza è palpabile in decenni di cinema successivo, da Spielberg in Duel alle sequenze più angoscianti del thriller moderno.
Un’opera magistrale per un regista che ha segnato un’epoca, un’arte, un modo di vedere la realtà. La sua estetica del sospetto, la sua capacità di trasformare la psiche umana in un labirinto cinematografico, il suo controllo maniacale della forma e del contenuto hanno plasmato intere generazioni di cineasti. Intrigo Internazionale è una summa della sua poetica: un'eleganza visiva mozzafiato, una sceneggiatura affilata come una lama, performance attoriali di precisione chirurgica e un sottotesto psicologico che, pur restando implicito, riverbera a lungo dopo la visione.
Una perfezione formale e un rigore stilistico che andrebbero promosse nelle scuole di cinematografia fino alla nausea, non solo come modello di intrattenimento, ma come lezione fondamentale su come il cinema possa essere, al contempo, un'evasione sublime e un'indagine profonda sull'animo umano e sulla natura della sua stessa rappresentazione. È un film che non invecchia, un faro che continua a illuminare il percorso per chiunque voglia comprendere la vera essenza del medium cinematografico.
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