Io... e il ciclone
1928
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Registi
Vi sono volti che sono paesaggi e corpi che sono strumenti di misurazione. Il volto di Buster Keaton è una piana desolata del Midwest, scolpita dal vento e dall'indifferenza cosmica, sulla quale gli eventi – siano essi una torta in faccia o un'intera armata nemica – scorrono senza increspare la superficie. Il suo corpo, invece, è un compasso, una livella, un sismografo di inaudita precisione, capace di calcolare angoli, traiettorie e vettori di forza con la grazia di un ballerino e l'efficienza di una macchina a vapore. In nessun altro luogo questo dualismo tra la quiete impassibile del volto e il moto perpetuo, quasi browniano, del corpo, raggiunge una sintesi più sublime che in "Io... e il ciclone" (The General, 1926), un'opera che trascende la slapstick comedy per diventare un'epica meccanica, un trattato di fisica applicata e una delle più pure espressioni di cinema che il XX secolo ci abbia regalato.
Il film, basato su un episodio reale della Guerra di Secessione noto come il "Grande Inseguimento sulla Locomotiva", si dispiega con la logica inesorabile di un teorema matematico. Il macchinista Johnnie Gray (Keaton) ha due amori: la sua fidanzata, Annabelle Lee (il cui nome, preso in prestito da Edgar Allan Poe, aggiunge una nota di romantica fatalità), e la sua locomotiva, "The General". Quando la guerra scoppia, Johnnie viene respinto dall'esercito confederato non per codardia, ma perché il suo ruolo di macchinista è considerato troppo strategico. Annabelle, fraintendendo, lo taccia di viltà. Il rifiuto è duplice, sentimentale e patriottico, e pone le basi per una ricerca di redenzione che si fonde con la materia stessa del racconto. Quando le spie dell'Unione rubano "The General" – e, per caso, anche Annabelle che si trovava a bordo – l'odissea di Johnnie ha inizio. Non è solo il recupero della donna amata, ma la riconquista del proprio alter ego meccanico, il prolungamento metallico della sua stessa identità.
La struttura narrativa del film è un chiasmo di una perfezione quasi soprannaturale. La prima metà è un inseguimento verso nord, con Johnnie, solo e a piedi o su mezzi di fortuna, all'inseguimento del treno rubato. La seconda metà è un inseguimento speculare verso sud, con Johnnie e Annabelle a bordo di "The General" in fuga, inseguito dall'esercito nordista. Questa simmetria non è un mero artificio stilistico; è la spina dorsale estetica e ritmica dell'intera opera. Ogni gag, ogni ostacolo, ogni soluzione ingegnosa trova il suo contrappunto nella seconda parte del film. L'azione non è una serie di sketch slegati, come spesso accadeva nella comicità del tempo, ma una catena di causa ed effetto, una sequenza di problemi cinetici che il protagonista deve risolvere usando il proprio corpo e l'ambiente circostante come un laboratorio a cielo aperto. Keaton non cerca la risata facile; persegue la soluzione elegante. La sua comicità è la conseguenza, quasi involontaria, di una logica ferrea applicata a un universo caotico.
Analizziamo una delle sequenze più celebri: Johnnie, seduto sulla biella di accoppiamento della locomotiva in movimento, che sale e scende mentre cerca di rimuovere un ostacolo dai binari. Non è solo uno stunt mozzafiato (eseguito, come sempre, da Keaton stesso senza controfigure); è una metafora visiva del suo personaggio. È un uomo che si adatta al ritmo implacabile della macchina, che ne diventa parte integrante, un pistone umano che lavora in sincrono con il cuore d'acciaio del suo treno. Qui Keaton si rivela non come un comico, ma come un artista performativo che dialoga con la fisica. Il suo rapporto con gli oggetti non è di conflitto, ma di interazione. Un cannone diventa un mirino di precisione quasi per caso; una spada da ufficiale è troppo lunga e impaccia i suoi movimenti fino a trasformarsi in un involontario strumento di difesa; le traversine dei binari diventano proiettili da scagliare con calibro perfetto. È un balletto meccanico dove il ballerino non impone la propria volontà sul mondo, ma ne comprende le leggi per piegarle, con grazia stoica, al proprio scopo.
Questa enfasi sulla macchina, sulla velocità e sul dinamismo proietta Keaton in una dimensione inaspettatamente affine al Futurismo. Sebbene lontano anni luce dalla retorica bellicosa di Marinetti, il suo Johnnie Gray è un eroe futurista suo malgrado: un uomo la cui esistenza è definita dalla sua simbiosi con il "nuovo idolo" della velocità, la locomotiva. "Io... e il ciclone" è un inno alla bellezza della meccanica, un poema visivo in cui ponti che crollano, scambi ferroviari e inseguimenti a vapore diventano i versi di una nuova, moderna epopea. È un'estetica che si distacca nettamente dal sentimentalismo umanista di Charlie Chaplin. Se Charlot ci chiede di piangere per la sua condizione di reietto, l'Omino di Pietra di Keaton ci chiede di ammirare la sua competenza. Chaplin è un poeta che mendica amore; Keaton è un ingegnere che esige rispetto. Il primo si appella all'anima, il secondo al cervello.
Il contesto storico della Guerra Civile non è un semplice sfondo. È una tela immensa e tragica sulla quale Keaton dipinge la sua commedia solipsistica. All'epoca, il film fu un clamoroso insuccesso commerciale e di critica. Il pubblico americano non era pronto a ridere della propria ferita nazionale più profonda. Utilizzare la Guerra di Secessione come teatro per acrobazie comiche fu visto come un atto di pessimo gusto, quasi sacrilego. Eppure, a posteriori, questa scelta si rivela geniale. L'enormità della guerra, con le sue armate in marcia e le sue strategie complesse, serve a ingigantire, per contrasto, la lotta dell'individuo. Johnnie Gray non combatte per la Confederazione o per un'ideologia; combatte per il suo piccolo, personale universo composto da una ragazza e da un treno. La Storia, con la sua "S" maiuscola, è solo un rumore di fondo, un ciclone indifferente attraverso cui il nostro minuscolo eroe deve navigare con la sola bussola del proprio ingegno. In questo, Keaton anticipa una sensibilità quasi esistenzialista: l'uomo solo di fronte all'assurdità del cosmo, che risponde non con la disperazione, ma con l'azione pragmatica.
Da un punto di vista meta-cinematografico, "Io... e il ciclone" è anche un film sulla natura stessa del cinema. La precisione richiesta dagli stunt di Keaton esigeva una precisione altrettanto maniacale dalla messa in scena, dal posizionamento della macchina da presa e dal montaggio. La cinepresa non è un osservatore passivo; è un partner agile che deve seguire, anticipare e catturare il moto perpetuo del suo protagonista. L'autenticità è totale: la celebre scena del ponte che crolla sotto il peso di una vera locomotiva fu la singola ripresa più costosa della storia del cinema muto. Non ci sono trucchi, non ci sono modelli. C'è solo la realtà, piegata e orchestrata per fini spettacolari. In questo senso, Keaton non è solo attore e regista, ma anche un ingegnere dello sguardo, un architetto che costruisce le sue cattedrali di movimento con la materia prima del pericolo e della verosimiglianza.
Rivedere oggi "Io... e il ciclone" significa assistere a un'apoteosi del cinema puro, un'arte che non aveva ancora bisogno della parola per comunicare concetti complessi come l'amore, l'ossessione, il dovere e la grazia sotto pressione. È un'opera che, come una costruzione di Palladio o una fuga di Bach, basa la sua bellezza immortale sulla perfezione della forma e sulla chiarezza della sua struttura. È il testamento di un artista unico, un filosofo stoico con le scarpe da clown, che ha saputo trasformare la fisica in poesia e un inseguimento in treno in una delle più grandi avventure dello spirito umano mai impresse su pellicola. Un monumento non alla guerra, ma alla tenacia di un piccolo uomo e della sua magnifica macchina contro il caos travolgente del mondo.
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