Corvo Rosso non avrai il mio Scalpo
1972
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Regista
Un’opera splendida, intensa, suggestiva e universale in cui Robert Redford interpreta un trapper asceta che al progresso che avanza inglobando paesaggi e uomini preferisce solitudine e isolamento. Più che un semplice racconto di sopravvivenza, Corvo Rosso non avrai il mio Scalpo si impone come una meditazione profonda sul rapporto primordiale tra l’uomo e la natura selvaggia, un’epopea quasi mitopoietica che trascende i confini del genere western per interrogare la stessa essenza dell’esistenza e della libertà individuale. È un film che, pur radicato nella specifica cornice della frontiera americana del XIX secolo, risuona con questioni eterne, parlando della disillusione verso la civiltà, della ricerca di autenticità e del prezzo da pagare per una vita non negoziata.
Jeremiah in effetti non ama affatto la confusione delle nuove metropoli che stanno nascendo e decide di isolarsi dal mondo ritirandosi nelle montagne. La sua fuga non è una mera ritirata strategica, ma una scelta filosofica radicale, un rigetto delle promesse vuote della civiltà industriale e del suo inarrestabile avanzamento, che stava iniziando a corrodere non solo i paesaggi ma anche l'anima stessa dell'America. È l'archetipo dell'individualista americano, non quello conquistatore e imperialista del Manifest Destiny, ma quello eremita, che cerca un paradiso perduto, una tabula rasa su cui riscrivere la propria esistenza lontano dalle ipocrisie e dalle costrizioni sociali. In questo senso, Jeremiah non è solo un trapper, ma un filosofo pragmatico che cerca la verità nel silenzio assordante delle vette.
Vivrà di caccia e di pesca e incontrerà l’umanità più varia: un cacciatore un po’ svitato e un vecchio capo indiano di cui sposerà la figlia. Questi incontri sono il cuore pulsante del film, plasmando Jeremiah non meno della solitudine stessa. L'eccentrico e saggio "Bear Claw" (interpretato da Will Geer) diventa per lui una figura mentore, un maestro di sopravvivenza e di saggezza montana, un ponte tra la rozza ingenuità del nuovo venuto e la cruda realtà della wilderness. La figura di Paints His Shirt Red, il capo Flathead, e di sua figlia Swan, offerta a Jeremiah come sposa, rappresentano invece un contatto con un'alterità culturale che lo costringe a confrontarsi con rituali, tradizioni e valori lontani, ma intrinsecamente legati alla terra. Swan, con la sua innocenza e il suo silenzio eloquente, è il simbolo della purezza incontaminata che Jeremiah cerca, e la sua presenza porta una fragile, ma intensa, parvenza di famiglia e di pace nel suo mondo solitario. È un periodo idilliaco, una sorta di Eden ritrovato, che però, come tutti gli Eden, è destinato a essere violato.
Suo malgrado ottiene un lavoro come scout per un drappello militare. Scortando i soldati si troverà a dover violare un cimitero indiano Crow. Questa sequenza è un punto di svolta cruciale, intrisa di un'ironia amara. L'uomo che aveva cercato la pace nella natura si ritrova, suo malgrado, a collaborare con le forze della "civiltà" che aveva rinnegato, finendo per compiere un atto di sacrilegio in un luogo sacro agli indiani. La violazione del cimitero non è solo un atto fisico, ma una metafora della profanazione di un intero stile di vita, un disprezzo per la sacralità della terra e della memoria degli antenati. È la classica collisione tra due mondi, due visioni inconciliabili dell'esistenza, dove la logica del progresso e della conquista annienta la spiritualità e il rispetto per il passato.
I Crow per ritorsione gli uccidono la moglie. Inizierà così la vendetta di Jeremiah in una sorta di percorso catartico: un’epopea che lo porterà ai confini del mito. La vendetta di Jeremiah non è una semplice sete di sangue, ma un'inevitabile conseguenza della violazione subita, una risposta alla distruzione del suo fragile equilibrio. Da trapper solitario e pacifista, egli viene trasformato in "Corvo Rosso", una figura leggendaria e temuta, che incarna la giustizia della wilderness. Questo percorso non è solo catartico ma trasformativo: Jeremiah non cerca più la pace, ma la vendetta, diventando egli stesso parte integrante del paesaggio selvaggio, un'estensione della sua implacabile legge naturale. È un'escalation di violenza ciclica, un dialogo muto tra uomo e natura, tra il desiderio di oblio e la necessità di affrontare le conseguenze. Il film dipinge questa trasformazione con una sobrietà quasi stoica, lasciando che le azioni e le reazioni si susseguano con la forza di un destino ineludibile, proiettando il protagonista in una dimensione quasi archetipica, quella del guerriero solitario che difende la propria integrità in un mondo ostile. È una parabola tragica, un'elegia per un'innocenza perduta.
Sydney Pollack alla regia avvalendosi del grande lavoro del direttore della fotografia Duke Callaghan (dieci anni più tardi sarà chiamato a lavorare a Conan il Barbaro da John Milius) gira con grande pulizia, nettezza e sobrietà restituendo allo spettatore quello che il protagonista disperatamente cercava: la pace della natura più incontaminata, il freddo sferzante che frusta il viso tra le nevi del Montana, il mormorio di un ruscello tra i boschi del Wyoming. La maestria di Pollack risiede proprio in questa capacità di bilanciare la grandezza epica del paesaggio con l'intimità del dramma umano. A differenza dei western tradizionali che spesso esaltano la conquista e l'eroismo virile, Pollack adotta un approccio quasi anti-western, privilegiando l'osservazione contemplativa, la sopravvivenza quotidiana e la profonda connessione spirituale con l'ambiente. La regia è essenziale, quasi spartana, consentendo al paesaggio di diventare un vero e proprio personaggio, imponente e indifferente, ma anche fonte di vita e di ispirazione.
La fotografia di Duke Callaghan è semplicemente mozzafiato, catturando la magnificenza e la brutalità delle Montagne Rocciose con un realismo quasi documentaristico, ma intriso di lirismo. Le ampie inquadrature che immortalano le vaste distese innevate e le fitte foreste non sono semplici sfondi, ma espressioni dello stato d'animo di Jeremiah, amplificando il suo senso di solitudine e la sua dipendenza dagli elementi. La luce naturale, l'uso sapiente del controluce, e la capacità di rendere la texture del freddo e della neve, conferiscono al film una sensazione di autenticità viscerale. È Callaghan che riesce a rendere tangibile il mormorio del ruscello, il vento tra gli alberi, il silenzio rotto solo dai suoni della fauna selvaggia. Il suo lavoro è fondamentale per trasmettere l'idea che la natura non è solo bella, ma un'entità potente e indomabile, che può dare e togliere, modellando l'uomo che vi si avventura. In questo contesto, Robert Redford non è solo un attore, ma una figura quasi scultorea, integrata perfettamente nel panorama, la sua fisicità asciutta e la sua presenza malinconica si fondono con la desolazione e la grandezza del paesaggio.
Per gli appassionati di comics: il personaggio di Jeremiah Johnson con il viso di Redford presterà le sembianze al Ken Parker di Berardi e Milazzo, fumetto cult italiano degli anni ’70. La risonanza di Corvo Rosso non avrai il mio Scalpo nell'immaginario collettivo, e in particolare nel fumetto, testimonia la sua universalità. Ken Parker, il "lungo fucile" vagabondo, condivide con Jeremiah non solo il volto di Redford, ma soprattutto l'anima: la scelta di vivere ai margini della civiltà, il profondo senso di giustizia, la repulsione per la violenza gratuita e l'attaccamento ai valori della natura. Entrambi i personaggi rappresentano una contro-narrazione all'eroe tradizionale, preferendo la riflessione all'azione impulsiva, la compassione alla crudeltà, l'empatia verso gli oppressi alla celebrazione del potere. È un film che, a cinquant'anni dalla sua uscita, continua a parlare al cuore di chiunque cerchi un senso di libertà e un ritorno all'essenziale, in un mondo sempre più frenetico e disumanizzante. Una gemma intramontabile, un inno alla resilienza umana e alla potenza inesorabile della natura.
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