Joker
2019
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Regista
La risata di Arthur Fleck non è un suono, è un sintomo. Un collasso tracheale, uno spasmo che scuote una carcassa emaciata come un burattino a cui sono stati recisi i fili. È il primo, lancinante indizio che il Joker di Todd Phillips non intende giocare secondo le regole del cinecomic, né tantomeno dell'agiografia del villain. Piuttosto, si presenta come una discesa agli inferi in soggettiva, un'ecografia dell'anima malata dell'Occidente travestita da origin story. Phillips, transfuga dalla commedia demenziale che sembra voler espiare i peccati di Una notte da leoni con un cilicio d'autore, compie un'operazione di trasbordo tanto sfacciata quanto affascinante: estirpa il personaggio dalla mitologia di Gotham e lo trapianta nel corpo del cinema newyorkese anni '70. Il risultato è una seduta spiritica cinematografica in cui gli spettri evocati hanno i volti di Travis Bickle e Rupert Pupkin.
L'omaggio, o forse sarebbe più corretto dire il calco esegetico, a Martin Scorsese è talmente esplicito da diventare quasi una dichiarazione di poetica. Joker non dialoga con Taxi Driver e The King of Comedy; li fagocita, li digerisce e ne rigurgita una versione distillata e contemporaneizzata. La Gotham del 1981 è una sineddoche della New York pre-Giuliani: una cloaca a cielo aperto, soffocata dai rifiuti e da una rabbia sociale che fermenta come un ascesso pronto a esplodere. In questo paesaggio urbano che sembra uscito da una tela di Leon Golub, Arthur Fleck si muove come una figura kafkiana, un insetto schiacciato dall'indifferenza di un sistema che ha tagliato i fondi ai servizi sociali, la sua unica, fragile rete di salvataggio. Il suo desiderio non è il caos anarchico del Joker di Heath Ledger, né la grandeur criminale di quello di Jack Nicholson. È un bisogno primordiale e terribilmente umano: essere visto. Essere riconosciuto. Come il Rupert Pupkin di De Niro, Arthur sogna il palcoscenico di uno show televisivo, quello del mellifluo Murray Franklin (interpretato da un Robert De Niro che chiude il cerchio, passando da aspirante a idolo), non per la fama, ma perché quella ribalta illuminata è l'unico luogo dove la sua esistenza invisibile potrebbe acquisire un barlume di significato.
Qui si annida la prima, grande intuizione del film: trasformare la genesi del più grande avversario di Batman in un dramma della solitudine e della malattia mentale, un racconto che potrebbe benissimo esistere senza cappe e maschere. Il lavoro di Joaquin Phoenix è un capitolo a parte, un'impresa attoriale che trascende la mimesi per diventare possessione. Il suo corpo, scavato da una dieta disumana, è una mappa del dolore. Ogni costola sporgente, ogni scapola che fende la pelle, racconta una storia di privazione. La sua danza, goffa e poi improvvisamente liberatoria, ricorda le contorsioni espressioniste di un personaggio di Egon Schiele, un tentativo disperato di far abitare un corpo che si sente alieno. E poi, quella risata. Una condizione patologica, l'effetto pseudobulbare, che trasforma il suono della gioia in una tortura, un cortocircuito tra emozione ed espressione che lo isola ancora di più dal mondo. Phoenix non interpreta un personaggio, incarna uno stato di sofferenza assoluta, trovando un equilibrio quasi miracoloso tra la fragilità commovente e un'inquietudine strisciante.
Il film di Phillips è un sismografo straordinariamente sensibile alle faglie della nostra contemporaneità. Uscito nel 2019, cattura con una precisione spaventosa le ansie di un'epoca di polarizzazione, di risentimento populista e di "uomini dimenticati". Arthur Fleck diventa l'epifenomeno di una massa di invisibili che, privati di voce e dignità, trovano nel suo gesto omicida e nichilista – la prima, goffa esplosione di violenza in metropolitana – un catalizzatore inaspettato. La maschera da clown, da simbolo di un'allegria posticcia e professionale, si trasfigura in icona di rivolta. Ed è qui che il film si fa più ambiguo e, per questo, più potente. Non offre facili giustificazioni né condanne morali. Mostra un processo, una reazione chimica in cui un individuo fragile e una società malata si combinano per creare un mostro. L'opera non glorifica la violenza, ma ne indaga la genesi con la freddezza di un patologo, suggerendo che i mostri, spesso, non nascono, ma vengono fabbricati.
La struttura narrativa, inoltre, gioca con maestria sull'inaffidabilità del narratore, un topos letterario che affonda le sue radici nell'Uomo del sottosuolo di Dostoevskij. Tutto ciò che vediamo è filtrato attraverso la psiche fratturata di Arthur. La sua relazione idilliaca con la vicina di casa (Zazie Beetz) è forse solo un'allucinazione? La sua apparizione trionfale e sanguinaria da Murray Franklin è avvenuta davvero in quel modo? Phillips dissemina indizi, come l'orologio che segna sempre la stessa ora nello studio televisivo, che ci costringono a mettere in discussione la veridicità di ogni scena. Il film stesso diventa un diario contorto, un monologo interiore che confonde realtà e delirio, costringendo lo spettatore a condividere lo smarrimento del protagonista. Questa scelta non è un mero vezzo stilistico, ma il cuore pulsante dell'opera: se non possiamo fidarci della realtà percepita, quali sono le basi della nostra morale?
Dal punto di vista estetico, Joker è un capolavoro di coerenza. La fotografia di Lawrence Sher, con la sua palette di gialli malati, marroni fangosi e verdi acidi, immerge Gotham in un'atmosfera opprimente e tossica. La colonna sonora di Hildur Guðnadóttir è un lamento funebre per violoncello solo, un suono viscerale che sembra emergere direttamente dalle profondità della disperazione di Arthur, diventando la voce della sua angoscia inarticolata. Ogni scelta, dalla grana della pellicola che emula il cinema di Sidney Lumet alla ricostruzione quasi feticistica del degrado urbano, contribuisce a creare un mondo chiuso, senza vie di fuga, in cui la trasformazione di Arthur in Joker non appare come una scelta, ma come l'unica, inevitabile conclusione.
Naturalmente, un'operazione del genere non è esente da rischi. L'eccessiva dipendenza dai modelli scorsesiani potrebbe essere letta da alcuni come una mancanza di originalità, un pastiche virtuoso ma privo di un'autentica voce autoriale. Eppure, sarebbe un errore fermarsi a questa interpretazione. Phillips non copia, ma ricanalizza. Usa un linguaggio cinematografico consolidato e riconoscibile per raccontare una storia profondamente attuale, creando un cortocircuito tra la nostalgia per un certo tipo di cinema adulto e impegnato e l'urgenza dei temi contemporanei. Svuota il mito del Joker di ogni elemento fumettistico e sovrannaturale per riempirlo con i traumi e le nevrosi del nostro tempo. Il suo Joker non è un agente del caos, un genio del crimine o un dandy psicopatico. È un simbolo vuoto, una maschera su cui una società frustrata proietta le proprie fantasie di rivalsa. È il prodotto finale di un mondo che ha deciso che alcune persone, semplicemente, non contano. E in questo, forse, risiede la sua natura più profondamente terrificante: non è il villain di cui Gotham ha bisogno, ma quello che, spaventosamente, si merita.
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