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Vincitori e Vinti

1961

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Un’autentica parata di stelle per un produzione a dir poco colossale. Non si trattava solo di un cast stellare – Spencer Tracy, Burt Lancaster, Richard Widmark, Maximilian Schell, Marlene Dietrich, Judy Garland, Montgomery Clift, un vero e proprio pantheon di giganti del cinema – ma di un assemblaggio magistrale di talenti che conferiva un peso specifico e una risonanza quasi operistica alla narrazione. Stanley Kramer, con il suo afflato da cineasta impegnato e la sua riconosciuta abilità nel dirigere "problem pictures", si superava in quest'impresa, orchestrando un dramma giudiziario che trascendeva il mero genere per assurgere a riflessione etica e storica di portata universale. La scala produttiva, l’accuratezza scenografica e la meticolosità nella ricostruzione degli eventi non erano meri orpelli, ma elementi funzionali a conferire al racconto un’imponente gravitas, un senso di solennità quasi documentaristica che ancorava la finzione alla cruda realtà dei fatti.

In sintonia con la visione democratica e il rinnovato idealismo che caratterizzavano l'America di John F. Kennedy, allora al suo primo anno di presidenza, arrivò un’opera che, per la prima volta e con un coraggio intellettuale sorprendente, non relegava al ruolo di pure entità malvagie e monodimensionali i nazisti, ma tentava di presentarli nella loro complessa e terrificante umanità. Si trattava di un approccio rivoluzionario per il cinema occidentale dell'epoca, che osava esplorare le sfumature grigie di un regime dipinto (non a torto) come il male assoluto. Kramer e lo sceneggiatore Abby Mann (premiato con l'Oscar per il suo magistrale adattamento) scavarono nelle loro complesse sfere emozionali e psicologiche, rivelandoli come esseri senzienti, talvolta persino raffinati intellettuali o onesti servitori dello Stato, che si trovarono, o scelsero, di agire in balia degli eventi o, peggio, si resero complici di abiezioni indicibili in nome di un’ideologia perversa. Questa disamina non era un tentativo di assoluzione, ma una sfida allo spettatore a confrontarsi con la scomoda verità che il male può germogliare anche nel più comune degli uomini, o nel più brillante degli intellettuali, una prefigurazione, in un certo senso, delle tesi sulla "banalità del male" che Hannah Arendt avrebbe esposto di lì a poco.

Il processo di Norimberga diviene in questo senso il palcoscenico ideale in cui Kramer giostra, con maestria quasi shakespeariana, i sentimenti contrastanti di vincitori e vinti. L'aula di tribunale, nella sua austera nudità, si trasforma in un teatro di coscienza, una sorta di conflitto silenzioso delle coscienze e degli ideali che precede e sottende la feroce dialettica del dibattimento legale. Ogni testimonianza, ogni controinterrogatorio, ogni silenzio carico di significato, contribuisce a tessere una trama non solo di fatti giuridici, ma di profonde questioni morali ed esistenziali. L'uso innovativo di spezzoni di cinegiornali e filmati originali dell'Olocausto, proiettati nell'aula, non è un mero espediente documentaristico, ma un pugno nello stomaco, un ineludibile richiamo alla realtà più cruda e disumana che quel tribunale era chiamato a giudicare, contrapponendo la fredda legalità alla brutalità indicibile della storia.

La figura centrale della storia è il giudice americano Dan Haywood, interpretato con una dignità e una quieta autorevolezza indimenticabili da Spencer Tracy, chiamato a presiedere e coordinare i lavori. Il suo compito non è solo quello di guidare un procedimento legale, ma di far sì che giustizia e condanna della storia possano trovare un equilibrio perfetto, un punto di giunzione tra il rigore della legge e l'imperativo morale di riconoscere e sanzionare crimini contro l'umanità senza precedenti. Haywood incarna la ricerca di una verità universale e di un principio di responsabilità individuale che trascenda le contingenze politiche. La sua integrità è messa a dura prova non solo dalle intricate argomentazioni legali, ma anche dalle pressanti ingerenze diplomatiche e dalle minacce velate da parte di un establishment americano preoccupato più dagli equilibri della nascente Guerra Fredda e dalla necessità di una Germania riarmata e alleata che dalla piena e incondizionata applicazione di una giustizia retributiva. La sua solitudine decisionale, il peso della storia sulle sue spalle, lo rendono un archetipo del giudice moderno, custode di un ordine etico e giuridico in via di definizione.

In filigrana emergono le personalità complesse di ciascuno dei leader nazisti sul banco degli imputati, ognuno con il proprio bagaglio di ricordi, errori, compromessi, e soprattutto con le proprie strategie di difesa. Da Ernst Janning (Maximilian Schell, in una performance da Oscar), il giurista raffinato e idealista che incarna il crollo morale dell'élite intellettuale tedesca e la sua abdicazione alla ragione, fino al cinico e sprezzante Rudolf Hofstetter (interpretato da Max von Sydow), che rappresenta l'esecutore materiale privo di rimorso, il film esplora le diverse sfaccettature della colpa. Non è solo la colpa diretta dei carnefici, ma anche quella, forse più insidiosa, della complicità silenziosa, dell'indifferenza morale, della "banalità del male" che permette a sistemi totalitari di prosperare. La pellicola interroga con acume la dicotomia tra responsabilità individuale e obbedienza all'autorità, spingendosi a considerare quanto fosse sottile la linea che separava l'uomo comune dal complice di crimini inimmaginabili, e quanto fosse facile per l'intelletto deviare dalla retta via per servire la cieca logica della ragione di stato.

È un’opera straordinaria che lascia trasparire dalla parola l’umanità delle persone, talvolta nella sua sublime capacità di resilienza e testimonianza, talvolta nella sua abietta caduta. Parallelamente, denuncia la disumanità intrinseca della storia quando questa si lascia plasmare da ideologie distruttive e dalla cecità del pregiudizio. Ma è soprattutto nel sondare il lato diabolico della ragione di stato che il film raggiunge la sua apoteosi tematica. Non solo la ragione di stato nazista che giustificava l'annientamento di popoli interi, ma anche quella, più subdola e insidiosa, delle potenze vincitrici che, appena pochi anni dopo la fine della guerra, si ritrovano a dover bilanciare i principi di giustizia con le nuove, impellenti esigenze geopolitiche di un mondo che già si profilava diviso. L'ombra della Guerra Fredda si allunga sul tribunale, insinuando il dubbio che la giustizia possa essere sacrificata sull'altare della realpolitik.

Anche una grande lezione di diritto internazionale e tout court di democrazia, ponendo le basi per una riflessione sui crimini contro l'umanità e sulla necessità di una giurisprudenza sovranazionale. La forza del film risiede nella sua capacità di tradurre concetti astratti come giustizia, colpa, responsabilità e perdono in un dramma umano palpabile, rendendoli accessibili e urgenti. Da vedere con duplice valenza: didattica, per la sua acuta analisi storica e giuridica e la sua perpetua rilevanza come monito contro l'intolleranza e la negazione della dignità umana; ed estetica, per la sua superba regia, le interpretazioni memorabili e una sceneggiatura che è un monumento di intelligenza e sensibilità. "Vincitori e Vinti" non è solo un capolavoro cinematografico, ma un faro etico che continua a illuminare le zone più oscure della psiche umana e della storia collettiva, interrogandoci sulla nostra capacità di giudicare e, soprattutto, di ricordare.

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