Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Kaos

1984

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Un corvo con un campanello al collo solca i cieli di una Sicilia arcaica, mitologica, quasi pre-umana. È la prima, straniante immagine di Kaos, e funge da Virgilio piumato in un'odissea attraverso l'anima di un'isola e, per estensione, dell'umanità intera. Il titolo, mutuato dal nome della contrada agrigentina che diede i natali a Luigi Pirandello, è la più sublime delle false piste. L'opera dei fratelli Taviani non è un'esplorazione del disordine, ma una meticolosa, quasi alchemica, trasmutazione del caos della vita – le passioni, le superstizioni, le ingiustizie, le follie – nel cosmo dell'arte. È un film-mondo, un arazzo tessuto con i fili grezzi delle Novelle per un anno, in cui i registi non si limitano ad adattare, ma evocano lo spirito più profondo dello scrittore, dandogli corpo, terra e sangue.

Il cinema dei Taviani ha sempre posseduto una qualità tellurica, un legame viscerale con la terra e le comunità che la abitano, da Padre Padrone a La notte di San Lorenzo. Qui, però, il loro realismo magico raggiunge un'apoteosi. La Sicilia di Kaos non è un mero sfondo, ma un'entità primordiale, un palcoscenico di roccia, polvere e sole abbacinante che sembra scolpito dalle stesse forze che modellano i destini dei suoi abitanti. È una terra più vicina alla Colchide di Medea o alla contea di Yoknapatawpha di Faulkner che alla Trinacria delle cronache. I Taviani, con la fotografia bruciata di Giuseppe Lanci, la dipingono con la stessa ieratica gravitas con cui John Ford ritraeva la Monument Valley, trasformandola in un paesaggio morale, un luogo dove il mito affiora dalle crepe della quotidianità.

La struttura episodica, che potrebbe facilmente franare nella frammentarietà, diventa qui una sinfonia in quattro movimenti più un epilogo. Non è un'antologia, ma una costellazione. Ogni storia brilla di luce propria, eppure la sua posizione e la sua luminosità acquistano un significato più profondo solo in relazione alle altre. L'altro figlio è una tragedia greca distillata nella disperazione di una madre (una monumentale Margarita Lozano) che attende lettere da figli emigrati in America, rifiutando l'unico rimastole, frutto di una violenza indicibile. Il suo dolore è un macigno ancestrale, un lamento che echeggia la Hecuba di Euripide, e la sua ostinazione a dettare lettere a un mondo che non risponde è la prima, potentissima incarnazione dell'assurdo pirandelliano.

Con un cambio di registro che avrebbe fatto la gioia di uno Shakespeare, si passa a Mal di luna, un racconto che vira verso il gotico rurale, il folk horror. Un uomo, Batà, con la luna piena si trasforma in una bestia urlante, preda di un male atavico e inspiegabile. La sua novella sposa, Sidora, è terrorizzata. È un episodio che sembra uscito da una collaborazione tra Val Lewton e il Verismo di Verga: la licantropia non è un tropo del fantastico, ma la metafora di un'oscurità interiore, della paura primordiale del diverso e dell'irrazionale che cova sotto la fragile crosta della civiltà contadina. L'amore e l'accettazione, alla fine, fungono da esorcismo, ma la vertigine di fronte al caos che abita l'animo umano resta intatta. L'immagine di Batà legato al tronco d'ulivo, illuminato da una luna fredda e indifferente, è cinema puro, un'icona di rara potenza espressiva.

Il cuore comico, o meglio, "umoristico" nel senso più pirandelliano del termine, pulsa ne La giara. Don Lollò Zirafa, interpretato da un Ciccio Ingrassia che eleva la maschera della commedia dell'arte a vette di ostinazione esistenziale, è un proprietario terriero ossessionato dal possesso e dalla logica. Quando la sua preziosa giara per l'olio si rompe, assume un conciabrocche, Zi' Dima, che per ripararla vi rimane intrappolato. La disputa che ne segue è un capolavoro di logica paradossale. È Buster Keaton intrappolato in un paradosso di Zenone, un dramma grottesco sulla forma che imprigiona la vita. Ridiamo dell'assurdità della situazione, ma avvertiamo "il sentimento del contrario": la prigione di terracotta di Zi' Dima è la stessa prigione mentale in cui Don Lollò si è rinchiuso, un microcosmo che riflette l'incapacità umana di trascendere le proprie, autoimposte, regole.

Il quarto episodio, Requiem, affronta un tema caro ai Taviani: la lotta di una comunità contro il potere. I contadini di un villaggio lottano per ottenere il diritto di seppellire i propri morti nella loro terra, sfidando il barone locale. È il segmento più corale, un affresco di ribellione popolare che riecheggia la dimensione politica de La notte di San Lorenzo, ma la spoglia di un preciso contesto storico per elevarla a parabola universale sulla dignità e il legame ancestrale tra un popolo e la sua terra.

Se il film si fosse concluso qui, sarebbe già un capolavoro. Ma i Taviani compiono un balzo mortale, un salto nella meta-narrazione che consacra Kaos nell'olimpo del grande cinema. L'epilogo, Colloquio con la madre, è una delle riflessioni più sublimi e commoventi sul processo creativo mai apparse su uno schermo. Vediamo Luigi Pirandello stesso (Omero Antonutti, che fu il padre-padrone per i registi, in un cortocircuito poetico), tornare nella casa d'infanzia per un dialogo immaginario con il fantasma della madre. È qui che il film svela il suo nucleo pulsante. Le storie che abbiamo visto non sono altro che i racconti che la madre faceva al piccolo Luigi. L'atto del narrare diventa un modo per sconfiggere la morte, per dare un senso al dolore, per far rivivere il passato. Quando la madre rievoca un viaggio della sua infanzia verso le isole di pomice, il film si astrae completamente dalla realtà. La narrazione verbale si fa visione pura: un gruppo di bambini scende da un veliero e corre leggero su una spiaggia bianchissima, fluttuando quasi in assenza di gravità. È un'immagine di una bellezza accecante, proustiana, un istante di tempo ritrovato attraverso la magia del ricordo e, infine, del cinema. In quel momento, capiamo tutto. Il cinema dei Taviani, come la letteratura di Pirandello, è questo: un disperato e meraviglioso tentativo di dare forma al caos, di trovare un istante di grazia e di senso nell'incongruenza dell'esistere.

Realizzato nel 1984, in un'Italia che si stava lasciando alle spalle la cupezza degli Anni di Piombo e si affacciava al disimpegno edonistico del decennio, Kaos è un'opera fieramente controcorrente. Invece di guardare avanti, i Taviani compiono un'immersione archeologica nelle fondamenta culturali, mitiche e linguistiche del Paese, ma senza alcuna nostalgia. Il loro è uno sguardo che cerca le radici non per rimpiangerle, ma per comprendere le strutture profonde del sentire e dell'agire umano. È un film che parla di emigrazione, di malattia mentale, di lotta di classe e di superstizione con una lucidità che trascende il folklore, facendone categorie universali. Kaos è il punto di incontro perfetto tra la vertigine intellettuale di Pirandello e la carnalità epica dei Taviani, un dialogo tra letteratura e cinema che arricchisce entrambe. È un viaggio sontuoso e terribile in un mondo che non esiste più, ma le cui passioni, paure e sogni continuano a vibrare sotto la superficie del nostro presente, come il campanello legato al collo di un corvo che non smette mai di volare.

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