Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Kes

1970

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Regista

Un'anima non ha bisogno di ali per volare, ma a volte un paio d'ali possono salvarne una. L’intera cosmogonia cinematografica di Ken Loach, e forse l'essenza stessa del British kitchen sink realism, si potrebbe condensare in questa crasi poetica e brutale. Kes non è un film su un ragazzo e il suo falco. Sarebbe come dire che Moby Dick è un romanzo su un'uscita di pesca finita male. È, piuttosto, un'elegia funebre per l'infanzia, un trattato di sociologia visuale sulla tirannia delle aspettative di classe e una delle più strazianti testimonianze della bellezza effimera che può germogliare nel fango della disperazione.

Uscito nel 1969, in un'Inghilterra che si scrollava di dosso la polvere psichedelica della Swinging London per affrontare la crisi industriale e le tensioni sociali degli anni '70, il film di Loach si pianta con ferocia nel cuore grigio dello Yorkshire. Il nostro antieroe, Billy Casper (un indimenticabile e non-attore, David Bradley), è una creatura quasi ferina, un piccolo ladruncolo sognatore intrappolato in un mondo che non ha tempo né spazio per i sogni. La sua casa è un letto condiviso con un fratello maggiore, Jud, un minatore la cui crudeltà è pari solo alla sua disperazione. La sua scuola è un purgatorio laico, una fabbrica di futuri disoccupati o minatori, presieduta da un corpo docente che oscilla tra l'apatia rassegnata e il sadismo puro, incarnato dal memorabile Mr. Sugden, l'insegnante di ginnastica che si immagina Bobby Charlton in una farsesca e violenta partita di calcio.

In questo panorama che sembra uscito da una litografia di L.S. Lowry animata da una rabbia zoliana, Billy non ha futuro. Il suo destino è segnato: la miniera. È un personaggio dickensiano privato di ogni sentimentalismo vittoriano, un Oliver Twist a cui nessuno chiederà mai "ancora un po'". La sua esistenza è una sequenza di piccole umiliazioni, fughe e fallimenti. Fino all'epifania. Fino a Kes. Il gheppio che Billy ruba da un nido non è un animale domestico, non è un surrogato d'affetto alla maniera di un film Disney. È qualcosa di più antico, di più puro. È un "thing of the wild", una creatura di istinto e perfezione letale. Nel momento in cui Billy decide di addestrarla, seguendo le istruzioni carpite da un manuale di falconeria rubato, compie il primo atto di autentica autodeterminazione della sua vita.

Qui Loach orchestra un miracolo cinematografico. L'addestramento di Kes diventa una metafora potentissima. Non è un atto di sottomissione, ma di comunione. Billy, il reietto, l'invisibile, diventa un maestro. Impone una disciplina a se stesso che la scuola e la famiglia non sono mai riuscite a imporgli. Trova un linguaggio – fatto di gesti, di pazienza, di osservazione – che trascende le parole smozzicate e inarticolate del suo dialetto di Barnsley. Le sequenze in cui Billy fa volare Kes nei campi sono pura poesia visiva, catturata dalla fotografia terrosa e lirica di Chris Menges. Per la prima volta, la macchina da presa di Loach, solitamente ancorata a un realismo documentaristico quasi pedinatorio, si concede il lusso di decollare. Segue il volo del falco, e con esso l'anima di Billy. In quegli istanti, il ragazzo non è più un fallito predestinato; è un artista, un demiurgo, un sacerdote di un rito atavico che lo connette a qualcosa di eterno, ben oltre le ciminiere e il polverone di carbone.

C'è una scena centrale, forse la più celebre, in cui Billy, solitamente muto e scontroso, viene spinto a raccontare alla sua classe l'esperienza con Kes. E accade l'inaspettato: il ragazzo si trasfigura. Parla con una passione, una competenza e un'eloquenza che nessuno, nemmeno lui stesso, sapeva di possedere. Per una decina di minuti, Billy Casper esiste. È visto, è ascoltato, è ammirato. È un momento di grazia tanto abbagliante quanto fugace, un lampo che illumina a giorno l'abisso di potenziale umano che il sistema sta metodicamente soffocando. È un momento che fa male, perché sappiamo che è un'eccezione, non una promessa. Quel sistema non è progettato per coltivare passioni come la falconeria; è progettato per produrre braccia per la miniera. L'unico adulto che sembra intravedere la scintilla in Billy, il suo insegnante di inglese, è a sua volta impotente, un ingranaggio marginale di una macchina inarrestabile.

Il parallelismo più calzante per Kes non si trova tanto nel cinema coevo, quanto nel neorealismo italiano. C'è lo stesso sguardo compassionevole ma non pietistico sugli ultimi, la stessa attenzione per l'ambiente come personaggio determinante, lo stesso senso di ineluttabilità che pervade Ladri di biciclette di De Sica. Billy Casper è il figlio spirituale di Antonio Ricci: entrambi ripongono la loro unica, fragile speranza di riscatto in un oggetto (una bicicletta, un falco) la cui perdita significa il collasso totale del loro mondo. Ma Loach è, se possibile, ancora più spietato. Se il finale di De Sica è un'immersione nella vergogna e nella sconfitta condivisa, quello di Loach è una pugnalata al cuore solitaria e silenziosa.

La tragedia, quando arriva, è tanto inevitabile quanto casuale nella sua brutalità. Non è frutto di un destino cosmico, ma della piccola, meschina frustrazione di un uomo debole, suo fratello Jud, che sfoga la propria impotenza sull'unica cosa che per Billy ha valore. L'uccisione di Kes non è solo la morte di un animale; è un omicidio dell'anima. È il messaggio finale, urlato senza parole, del mondo a Billy: "Tu non puoi volare. Tu non puoi essere libero. Il tuo posto è qui, nel fango con noi". La sequenza finale, con Billy che seppellisce il corpicino del falco sulla collina, è un funerale per ogni sogno che sia mai stato spezzato dalla banalità del male. Non c'è catarsi, non c'è lezione appresa. C'è solo il silenzio vuoto che segue un grido.

Visto oggi, Kes vibra di una potenza quasi profetica. Annuncia la fine dell'ottimismo post-bellico e anticipa l'era Thatcheriana, la dismissione delle miniere, la disintegrazione di intere comunità operaie. È un film che, sotto la sua superficie semplice e lineare, nasconde una complessità stratificata. È un racconto di formazione al contrario, una storia di "de-formazione". È un saggio sulla pedagogia e sui suoi fallimenti. È un poema visivo sulla natura selvaggia che sopravvive negli interstizi del cemento industriale. È, in definitiva, la storia di un volo interrotto. Un volo magnifico, disperato, che ci ricorda come le opere d'arte più grandi non sono quelle che ci offrono una via di fuga, ma quelle che ci costringono a guardare, con lucidità e cuore spezzato, la realtà per quello che è, trovando una bellezza terribile persino nella caduta.

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