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Killers of the Flower Moon

2023

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Media: 4.50 / 5

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La macchina da presa di Martin Scorsese si muove spesso come un predatore, un serpente che striscia nell'erba alta della Storia americana per mordere alla caviglia il suo mito fondativo. In Killers of the Flower Moon, tuttavia, il movimento è diverso. È lento, quasi liturgico, il passo processionale di un epicedio. Non è un giallo da risolvere, ma un'autopsia morale da contemplare, un esame meticoloso della putrefazione che si annida nel cuore di un sogno. Il film si spoglia quasi subito del meccanismo del "whodunit", rivelando i lupi in piena luce sin dall'inizio. La domanda che pulsa per tre ore e ventisei minuti non è "chi?", ma un "come?" e un "perché?" che si fanno sempre più abissali: come può il male attecchire con tale banale, quotidiana metodicità? E perché l'amore stesso può diventare il suo più subdolo veicolo?

Siamo di fronte a un grande anti-western, un western rovesciato. L'epica della frontiera, con la sua violenza catartica e la sua chiara distinzione tra civiltà e barbarie, qui si dissolve in una palude melmosa di avidità. La Nazione Osage, arricchitasi a dismisura grazie al petrolio scoperto nelle sue terre in Oklahoma, non è l'ostacolo selvaggio da superare, ma una civiltà opulenta e strutturata, la cui ricchezza attira parassiti come il sangue attira le mosche. Scorsese, con la complicità dello sceneggiatore Eric Roth, adatta il saggio di David Grann operando una scelta narrativa cruciale e potentissima: sposta il baricentro del racconto dall'indagine dell'FBI, che nel libro arriva come la cavalleria a salvare la situazione, al cuore della relazione tossica e incomprensibile tra Ernest Burkhart (un Leonardo DiCaprio magistrale nella sua mediocrità) e sua moglie Osage, Mollie (una Lily Gladstone la cui performance è un monumento di quieta devastazione).

Questa scelta trasforma il film da un crime procedurale a un'inquietante discesa nel cuore di tenebra dell'animo umano. Ernest Burkhart non è un villain carismatico alla maniera dei gangster scorsesiani. È un vuoto a perdere, un uomo di paglia morale, la cui spina dorsale è stata sostituita da un'insaziabile, ottusa cupidigia instillatagli dallo zio, William "King" Hale. Robert De Niro regala a Hale una maschera di benevolenza patriarcale che è più terrificante di qualsiasi smorfia di violenza. Parla la lingua Osage, si atteggia a loro benefattore, li chiama "il mio popolo", ma il suo sguardo è quello di un allevatore che calcola il valore del bestiame prima del macello. È la personificazione di un paternalismo predatorio, un Kurtz in redingote che ha stabilito il suo regno di orrore non nella giungla congolese, ma nelle praterie dell'Oklahoma. La sua malvagità non è un'esplosione, ma una lenta, costante somministrazione di veleno, sia letterale che metaforico.

Il fulcro emotivo, il centro di gravità attorno a cui orbita tutta questa corruzione, è Mollie. Lily Gladstone non recita: abita il personaggio con una grazia e una forza interiore che trafiggono lo schermo. Il suo volto diventa la mappa del dolore del suo popolo. Attraverso i suoi occhi, che osservano con una mescolanza di amore, sospetto e rassegnazione, noi spettatori siamo costretti a testimoniare il tradimento più intimo. La sua silenziosa dignità di fronte a un mondo che la sta letteralmente consumando dall'interno – con l'insulina avvelenata che il marito le inietta per "curare" il diabete – è il cuore pulsante e straziante del film. La sua storia d'amore con Ernest è una delle più agghiaccianti mai portate sullo schermo, proprio perché venata da una parvenza di sincerità. Lui, in qualche modo contorto e patetico, sembra amarla, ma il suo amore è un sentimento debole, anemico, incapace di opporsi alla marea montante della sua stessa avidità e della volontà ferrea dello zio. È un amore che coesiste con l'omicidio, una contraddizione che il film non cerca di risolvere, ma che presenta come la più oscura delle verità umane.

La regia di Scorsese è monumentale, quasi geologica. Abbandona i virtuosismi cinetici di Goodfellas per un ritmo che ha la pesantezza ineluttabile della tragedia greca. Ogni inquadratura di Rodrigo Prieto è un dipinto a olio che cattura la bellezza austera della terra e la sua profanazione. I colori sono terrosi, saturi, come se il petrolio stesso avesse macchiato la pellicola. Il montaggio di Thelma Schoonmaker non affretta mai gli eventi, ma li lascia sedimentare, costringendo lo spettatore a vivere in tempo reale la lenta agonia di una comunità. E poi c'è la colonna sonora, l'ultimo, struggente lavoro di Robbie Robertson. Un lamento blues che si fonde con i canti tribali, un battito cardiaco morente che funge da controcanto alla marcia funebre che si dipana sullo schermo.

L'elemento che eleva Killers of the Flower Moon da capolavoro a testamento è il suo finale, un colpo di genio meta-testuale tanto audace quanto necessario. Scorsese rompe la quarta parete in un modo che ricorda le strategie brechtiane. La narrazione della tragedia Osage si trasforma in uno spettacolo radiofonico true-crime, con attori bianchi che interpretano e semplificano il dramma per l'intrattenimento di massa. Le morti reali diventano effetti sonori, il dolore una battuta a effetto. E poi, in un gesto di confessione e di assunzione di responsabilità storica, appare lui, Scorsese stesso, a leggere l'ultimo, desolante necrologio di Mollie. Con questo atto, il regista non si pone al di sopra della storia, ma dentro di essa. Ammette che anche il suo film, pur con tutta la sua empatia e il suo rigore, è una forma di appropriazione, una traduzione di una sofferenza indicibile nel linguaggio dello spettacolo. È un'ammissione della colpa intrinseca di ogni narratore che trasforma la tragedia in arte, e un monito per lo spettatore, complice di questo processo.

Il film diventa così non solo il racconto del "Regno del Terrore" in Oklahoma, ma una profonda riflessione sulla memoria, sulla narrazione e sulla cancellazione. Chi racconta le storie dei vinti? E come si può rendere giustizia a un'enormità senza spettacolarizzarla? Killers of the Flower Moon si pone in dialogo non solo con il cinema di John Ford, di cui è la cupa negazione, ma anche con la grande tradizione letteraria americana, da Faulkner a Cormac McCarthy, nell'esplorare il peccato originale di una nazione costruita sull'avidità e sulla violenza mascherata da progresso. È un'opera esigente, quasi estenuante, un requiem che non offre consolazione né catarsi, ma che si imprime nella coscienza come una macchia indelebile. Un pezzo di cinema essenziale, un atto d'accusa che, attraverso la sua maestria formale, diventa un atto di memoria. E, in ultima analisi, un atto d'amore verso il cinema stesso e la sua terribile, meravigliosa capacità di guardare l'orrore dritto negli occhi.

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