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Nel Corso del Tempo

1976

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Un Wim Wenders istrionico e goliardico filma in splendida presa diretta un road movie fracassone e intimista, capace di inchiodare lo spettatore alla poltrona per 3 lunghe ore con la malìa del suo formalismo iconografico e le gesta sgangherate dei due protagonisti. Questa durata imponente, ben lungi dall'essere un mero esercizio di stile, si rivela un ingrediente essenziale per intessere una narrazione dalla cadenza quasi ipnotica, una sorta di deriva meditativa che trascende il puro sviluppo della trama per immergersi nelle pieghe più recondite dell'anima tedesca e, per estensione, della condizione umana. Il rigore quasi documentaristico della ripresa, che predilige i lunghi piani sequenza e un bianco e nero crudo, ma di straordinaria profondità pittorica, non è mai fine a sé stesso: esso diviene strumento per cogliere la verità sfuggente degli incontri, la polvere depositata sul paesaggio e sui volti, il rumore sordo e pulsante della vita che scorre ai margini delle grandi autostrade.

La storia è imperniata sull’incontro tra due personalità antitetiche: Bruno, interpretato da un magnifico Rüdiger Vogler, è un riparatore di proiettori e macchine da presa, un custode itinerante di un cinema in lenta agonia, che gira la Germania per lavoro, quasi un moderno Don Chisciotte delle sale di provincia. Robert, alias Hanns Zischler, è uno psicolinguista che si è appena separato dalla moglie dopo un viaggio in Italia, un intellettuale alla deriva emotiva, in cerca di un vocabolario per ridefinire la propria esistenza. La loro dicotomia non è solo caratteriale, ma simbolica: Bruno incarna la materialità del mezzo cinematografico, la sua fisicità meccanica, la memoria analogica; Robert, invece, si muove nel regno impalpabile delle parole, del pensiero, dell'inconscio. L'incontro tra il "Re della Strada" e il "Viaggiatore delle Parole" diventa così un'allegoria della tensione tra immagine e linguaggio, tra l'immediato e il riflessivo, che anima l'intera filmografia di Wenders.

I due stringeranno un improbabile sodalizio dopo un incidente stradale – un rovesciamento quasi burlesco di un'auto nel fiume, che sfiora il grottesco per poi virare nell'assurdità malinconica – condividendo un viaggio che li porterà a percorrere un Paese dibattuto tra il boom economico del dopoguerra e le lacerazioni etnico-politiche che ne minavano le fondamenta. Quella Germania raffigurata non è solo uno sfondo: è un personaggio muto, ma eloquente, fatto di case bombardate e ricostruite, di muri che ancora respirano la storia recente, di periferie industriali che celano piccole sale cinematografiche dimenticate e stazioni di servizio notturne. Wenders cattura con un'empatia quasi palpabile l'alienazione post-industriale, il senso di smarrimento di una nazione che cerca di definire la propria identità in un'Europa divisa. Il film diventa così una sorta di "mappa sentimentale" di una Germania in trasformazione, un'ode nostalgica a un mondo che sta scomparendo e al tempo stesso un'indagine sulle radici profonde del malessere esistenziale che permeava la gioventù europea dell'epoca, come riscontrabile anche in opere di Fassbinder o Herzog, pur con toni e approcci molto diversi.

I due, come due angeli squinternati, poseranno il loro candore disincantato, la loro curiosità quasi infantile, sopra una miriade di storie e situazioni effimere. Ogni tappa del loro itinerario picaresco è un quadretto autonomo, un frammento di vita colto nell'attimo della sua più nuda verità: un bambino che guarda la televisione, un proiezionista anziano che racconta un'epoca d'oro, una donna solitaria in un bar di provincia. Da ognuna di queste minuscole tessere della quotidianità, i protagonisti ricavano una particella della propria redenzione, un barlume di comprensione sul senso di appartenenza, sull'amicizia maschile e sulla fragilità dell'esistenza. La redenzione non è mai un evento catartico, ma un processo cumulativo, fatto di piccoli sguardi, di silenzi condivisi, di sigarette fumate sotto cieli sconfinati. È la ricerca di una "Heimat" (patria, casa) non tanto geografica quanto interiore, in un'epoca in cui la Germania, dopo il disastro bellico, doveva reinventare il proprio concetto di identità.

Wenders, dopo le evasioni oniriche di Alice nelle Città e le peregrinazioni metafisiche di Falso Movimento, conclude con Nel Corso del Tempo (titolo originale Im Lauf der Zeit, un'espressione che richiama la transitorietà e il fluire costante) la sua trilogia dedicata al viaggio. Se Alice era l'innocenza scoperta e Falso Movimento l'intellettualismo tormentato, questo film è la maturità, l'incontro con la concretezza della strada e delle persone. È l'opera in cui Wenders riesce a coglierne l’aspetto più toccante: il senso avido di fratellanza che si sviluppa tra due solitudini che si riconoscono, il fascino delle distanze da percorrere non come fuga, ma come atto di ricerca, e il riverbero della gente incontrata, un'eco che risuona ben oltre la loro breve apparizione. Questo film solidifica la sua reputazione di autore capace di dare voce a un senso di dislocazione esistenziale, tipico del Nuovo Cinema Tedesco, ma con una poesia e un lirismo del tutto personali.

L’opera di Wenders presenta ovviamente un carattere marcatamente autobiografico: nell’ossessione di Bruno per il cinema, che riflette la passione incondizionata del regista per il mezzo e la sua preoccupazione per il futuro delle sale cinematografiche di fronte all'avanzare della televisione; nel carattere nomade dei due protagonisti, che rispecchia la vita errante dello stesso Wenders, sempre in bilico tra Europa e Stati Uniti; e nella passione di Robert per gli aspetti della lingua che sfiorano zone inesplorate della psiche umana, un'eco dell'interesse del regista per la narrazione, per il potere delle parole e delle immagini nel plasmare la percezione della realtà.

Un film brulicante di battute, di persone, di paesaggi, ma soprattutto intriso di una malinconia dolce e persistente, un inno alla lentezza e all'osservazione. Un capolavoro che ci ricorda come, nel corso del tempo, siano spesso i viaggi più semplici e gli incontri più improbabili a plasmare la nostra anima, rivelandoci verità universali celate nella banalità del quotidiano. Un'opera che, ancora oggi, risuona con la forza di un classico senza tempo, capace di parlarci di solitudine, connessione e la perenne ricerca di un posto nel mondo.

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