Un Bacio e una Pistola
1955
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Regista
Aldrich e Spillane, ovvero cinema di qualità e letteratura di largo consumo. Davvero uno strano connubio che da vita ad uno dei più conturbanti noir di sempre. Un cortocircuito geniale tra l'intelligenza viscerale di un regista come Robert Aldrich, capace di leggere le pieghe oscure dell'animo umano con una lucidità quasi brutale, e la prosa muscolare, rozza e irresistibilmente pulp di Mickey Spillane. Il risultato non è solo un semplice adattamento, ma una decostruzione e una reinvenzione del genere, un'opera che si spinge ai confini della sperimentazione, quasi un prototipo di quello che decenni dopo sarà il neo-noir, con la sua amoralità e il suo nichilismo esistenziale.
Mike Hammer è un detective fuori dal comune: ottuso, rude e senza sentimenti si muove come un caterpillar e macina risultati con la sua rozza caparbietà. La sua figura è l'incarnazione di un antieroe post-bellico, un uomo la cui bussola morale è irrevocabilmente smagnetizzata, il cui machismo tossico è una corazza dietro cui si cela forse un vuoto ancora più profondo. Lontano anni luce dall'ironia sferzante di Philip Marlowe o dalla cinica saggezza di Sam Spade, Hammer è pura forza bruta, un'Id in carne e ossa che riduce ogni interazione a uno scontro fisico o verbale, anticipando la violenza esplicita e disincantata che sarebbe divenuta una cifra stilistica di certo cinema anni '70. La sua "rozzezza" non è solo caratteriale, ma quasi una scelta estetica, che Aldrich esalta senza sconti, gettando lo spettatore in un mondo dove la bellezza è solo un'illusione fugace e la brutalità è la valuta corrente.
In questo caso si trova alle prese con un traffico di materiale radioattivo che un losco individuo vuole rivendere ad una potenza straniera. Inizierà un torbido vortice di sotterfugi che svelerà un piano diabolico. Ma il vero "MacGuffin", la celebre "Great Whatzit", l'enigmatica scatola luminescente che Hammer insegue con ottusa determinazione, trascende la sua funzione narrativa per diventare una terrificante metafora. Non è solo un oggetto di desiderio, ma un vero e proprio Vaso di Pandora atomico, un simbolo viscerale della paura nucleare che attanagliava l'America e il mondo intero negli anni '50. Il bagliore mortifero che emana, invisibile ma tangibile, allude a un orrore indicibile, alla fine del mondo per mano dell'uomo stesso. Questo dettaglio, apparentemente un semplice espediente narrativo, eleva il film da semplice poliziesco a disperata allegoria di un'era.
Il film è paradigmatico per i suoi latenti (e nemmeno troppo nascosti) sentimenti ecologisti e antinuclearisti. Tanto che valse allo sceneggiatore A.I. Bezzerides l’iscrizione nelle liste nere di Hoover, bollato come simpatizzante di sinistra. Del resto la vicenda di Elia Kazan ci insegna che durante il Maccartismo era sufficiente essere velatamente progressisti, o anche solo critici verso l'establishment, per essere additati come pericolosi dissidenti rossi. Questa pressione politica non è un mero aneddoto biografico, ma permea ogni fotogramma del film. L'atmosfera claustrofobica, la sfiducia generalizzata, la violenza arbitraria e il senso di un mondo sull'orlo del baratro riflettono direttamente l'isteria della Caccia alle Streghe, dove la paranoia era onnipresente e la minaccia, interna o esterna, era sempre pronta a manifestarsi con un bagliore accecante. Aldrich, con un coraggio quasi suicida per l'epoca, non solo non celò queste allusioni, ma le amplificò, trasformando l'ansia politica in un'angoscia esistenziale palpabile.
Il film riesce a catturare la brutalità retorica di Spillane ricavandone un avvincente congegno poliziesco da dipanare con pazienza. Ma è soprattutto la regia di Aldrich a trascendere il materiale di partenza. Attraverso la fotografia espressionista di Ernest Laszlo, intrisa di chiaroscuri e angolazioni distorte che riflettono la psiche contorta del protagonista e l'atmosfera moralmente corrotta, "Un Bacio e una Pistola" diventa un'opera d'arte visiva. Le inquadrature deformate, i primi piani insistiti, la scansione frammentata della narrazione e l'uso di un sonoro quasi straniante – si pensi al pianto disperato di Christina all'inizio del film, un urlo primordiale che squarcia il silenzio – creano un senso di costante disagio. La Los Angeles notturna non è più una città di fascino e ombre romantiche, ma un labirinto di vicoli oscuri e appartamenti fatiscenti, un inferno urbano che inghiotte i suoi abitanti. Il finale, un'esplosione catartica e terrificante che allude all'annientamento totale, fu talmente controverso da essere modificato per volere della censura, ma anche nella sua versione edulcorata mantenne un potere perturbante ineguagliabile. Il film non solo definì l'estetica noir per una nuova generazione, ma influenzò capolavori successivi, dal tronco in "Pulp Fiction" di Tarantino (un omaggio dichiarato alla "Great Whatzit") al cinema di David Lynch, per la sua capacità di scavare nelle pieghe più oscure e irrazionali dell'inconscio americano. Un'opera fondamentale, la cui fiamma, per fortuna, non si è mai spenta.
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