Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Koyaanisqatsi

1983

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Un petroglifo millenario osserva in silenzio. Poi, l'orizzonte si squarcia. Un razzo Saturn V, totem fallico della nostra era tecnologica, ascende verso il cielo su una colonna di fuoco e furia, la sua violenza resa lirica da un ralenti che ne trasfigura la natura. Non è l'inizio di una storia, ma l'evocazione di un mito fondativo alla rovescia. È l'incipit di Koyaanisqatsi, e Godfrey Reggio non ci sta invitando a una visione, ma a una liturgia. Un rito cinematografico che, come ogni rito che si rispetti, bypassa il logos per parlare direttamente al sistema nervoso, al subconscio, a quella parte di noi che riconosce i pattern prima ancora di poterli nominare.

Girato nell'arco di quasi sette anni e assemblato con la pazienza di un monaco amanuense, il film di Reggio è un'opera che si colloca fieramente al di fuori di ogni categoria. Non è un documentario, poiché manca di didascalismo e di voce narrante. Non è finzione, eppure costruisce un mondo più potentemente di mille sceneggiature. È, forse, l'equivalente cinematografico di un poema sinfonico, o meglio ancora, di un oratorio pagano per il XX secolo. Se il cinema è, come sosteneva Jean Epstein, una macchina per pensare, Koyaanisqatsi è una macchina per sentire, per percepire la disconnessione tra il tempo geologico del pianeta e il tempo parossistico della nostra civiltà.

Il suo linguaggio è quello del puro montaggio dialettico, un'eredità che risale direttamente ai maestri del cinema sovietico. Ma laddove Ejzenštejn usava la collisione di immagini per forgiare un significato politico e intellettuale preciso, Reggio la impiega per generare uno stato di trance, un'epifania estetica e spirituale. Il film resuscita il fantasma del "Kino-Occhio" di Dziga Vertov, aggiornando la sua estasi urbana sovietica in un requiem tardo-capitalista. La cinepresa di Ron Fricke non si limita a osservare; essa respira. Scivola sulle formazioni rocciose della Monument Valley con la lentezza ieratica di un'entità geologica, cattura la danza delle nuvole in time-lapse trasformandole in fiumi celesti, e poi, con uno stacco brutale, ci getta nel cuore pulsante e meccanico della nostra creazione.

La prima metà dell'opera è una contemplazione del mondo naturale che ha la quiete sublime dei paesaggisti romantici, da Caspar David Friedrich ai pittori della Hudson River School. È un mondo di forme pure, di ritmi lenti, di una maestosità che non ha bisogno dell'uomo per avere un senso. Ma poi il contagio ha inizio. Un'ombra si allunga, un'esplosione mineraria lacera la terra. Appaiono le linee elettriche, vene artificiali che innervano il paesaggio, seguite da macchinari pesanti che si muovono come insetti preistorici in un baletto industriale di una bellezza terribile e sinistra. È qui che il film rivela la sua parentela con l'estetica Futurista, ma ne inverte il segno. Se Marinetti celebrava la "bellezza della velocità" e il "mondo che si è arricchito di una bellezza nuova", Reggio e Fricke ne mostrano il costo, la divorante efficienza. L'automobile non è più simbolo di libertà, ma una cellula impazzita in un flusso sanguigno congestionato, il cui moto perpetuo in time-lapse diventa l'immagine stessa della stasi, del non-movimento.

E poi c'è la musica. Parlare di Koyaanisqatsi senza elevare la partitura di Philip Glass al rango di co-autore sarebbe un errore critico imperdonabile. La sua musica minimalista, con i suoi arpeggi ipnotici e le sue progressioni armoniche inesorabili, non è un commento o un sottofondo. È la voce del film, il suo motore ritmico, il suo sistema circolatorio. Il coro che canta a intervalli il titolo – "Ko-yaa-nis-qatsi" – non sta semplicemente enunciando un nome; sta intonando un mantra, una diagnosi, una profezia. La musica di Glass agisce come un acceleratore percettivo, saldando immagini eterogenee in un unico, inarrestabile flusso di coscienza visivo. Senza di essa, le immagini di Fricke sarebbero state una galleria di fotografie spettacolari; con essa, diventano un organismo vivente, un Golem cinetico.

Il cuore del film è la sua sezione urbana, una discesa nel formicaio umano che fa impallidire qualsiasi sinfonia metropolitana precedente. La gente, ridotta a sciami colorati su scale mobili, a flussi indistinti che attraversano le stazioni, non è più composta da individui. È una massa, un super-organismo governato da leggi invisibili, come le particelle in un acceleratore. L'analogia più calzante non è forse nel cinema, ma nella letteratura della Beat Generation. Koyaanisqatsi è l'"Howl" di Allen Ginsberg tradotto in immagini: un lamento ritmico e torrenziale contro una civiltà che sacrifica l'anima sull'altare di Moloch, il cui volto qui è quello della produzione di massa, del consumo fine a se stesso, dell'architettura che isola e opprime. La sequenza della demolizione del complesso residenziale Pruitt-Igoe a St. Louis – un evento reale che per l'architetto Charles Jencks segnò "la morte dell'architettura moderna" – diventa nel film un simbolo potentissimo del fallimento del sogno utopico-razionalista, un'ammissione di colpa in forma di esplosione controllata.

E che dire dell'anno di uscita, il 1982? Un anno cruciale. Lo stesso anno in cui Ridley Scott portava sullo schermo Blade Runner. Entrambi i film, pur con linguaggi diametralmente opposti, sono figli della stessa ansia, della stessa percezione di un futuro che è già qui e che è profondamente disumano. Se Scott immagina una Los Angeles piovosa e noir per raccontare la crisi dell'identità nell'era della riproduzione artificiale, Reggio astrae il concetto, mostrandoci la matrice stessa di quel mondo: i circuiti stampati che scorrono come autostrade infinite, le informazioni che viaggiano alla velocità della luce, riducendo l'esperienza umana a un flusso di dati. È un'intuizione profetica che anticipa di decenni la nostra attuale esistenza digitale. Come in un romanzo di Philip K. Dick, la realtà si dissolve in un simulacro, ma qui il simulacro non è un androide, è l'intero sistema di vita che abbiamo costruito.

C'è, tuttavia, una profonda e affascinante ironia meta-testuale in Koyaanisqatsi. Il film utilizza gli strumenti più sofisticati della tecnologia cinematografica (camere ad alta velocità, obiettivi speciali, elaborate tecniche di post-produzione) per mettere in discussione la traiettoria di quella stessa tecnologia. Non è un pamphlet luddista, ma una critica interna, una riflessione complessa che nasce dal cuore della macchina per guardare la macchina stessa. È un'opera che dimostra come la tecnologia, se guidata da una visione artistica e filosofica, possa trascendere la propria natura strumentale per diventare un veicolo di consapevolezza.

Il finale, con il ritorno del razzo che esplode in una palla di fuoco e precipita verso la terra in un ralenti struggente, chiude il cerchio. L'ascesa e la caduta. L'hybris e la nemesi. Il silenzio del petroglifo che ci osserva dall'inizio dei tempi rimane impassibile. Non c'è un giudizio esplicito, solo la presentazione dei fatti, montati secondo una logica poetica ineluttabile. Koyaanisqatsi non offre soluzioni; la sua funzione è quella di un sismografo dell'anima. Registra le scosse, le fratture, la "vita fuori equilibrio" suggerita dal titolo Hopi. Non è un film che si "guarda", ma un'esperienza che si assorbe, un distillato purissimo di cinema che ci costringe a vedere il nostro mondo come se lo vedessimo per la prima volta, attraverso gli occhi impassibili di un'entità aliena o, forse, di un dio dimenticato. E in questa visione, c'è una bellezza terrificante, la stessa bellezza che si può trovare in una supernova o in una perfetta equazione matematica che descrive il caos. È il sublime del nostro disastro.

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