La Battaglia di Algeri
1966
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Regista
La Battaglia di Algeri è una di quelle rare gemme incastonate nel diadema del cinema italiano del magico decennio degli anni sessanta capace di riscuotere consensi unanimi di pubblico e critica non solo in Italia ma soprattutto in ambito internazionale. Un decennio, quello degli anni '60, che vide l'Italia protagonista di una straordinaria fioritura cinematografica, dalla commedia all'italiana ai maestri come Fellini e Antonioni, ma Pontecorvo si distingue per la sua capacità di infondere nella narrazione storica una vibrante attualità, trascendendo la mera cronaca per abbracciare un'epica universale della lotta per l'autodeterminazione. La sua risonanza globale non fu un caso, ma il risultato di una messa in scena tanto estetica quanto ideologica, capace di parlare al cuore dei movimenti di liberazione post-coloniali e, al contempo, interrogare le democrazie occidentali sulle ombre del proprio passato coloniale.
Opera commissionata dal governo algerino che ha scatenato non poche polemiche in Francia, con buona parte delle istituzioni francesi che l’hanno bollata di una visione troppo parziale dei fatti. Questa accusa di parzialità, tutt'altro che infondata agli occhi di una nazione che ancora stentava a riconoscere la vera natura della sua presenza in Algeria, rivela la potenza incendiaria di un'opera che, pur adottando un rigoroso stile quasi-documentaristico, osava mostrare la brutalità della repressione coloniale con una schiettezza disarmante. Il film divenne così un casus belli culturale e politico. Fu così che il film fu censurato e dovette attendere cinque anni prima di poter uscire nelle sale francesi, in versione rimaneggiata, una versione edulcorata che cercava di attenuare l'impatto di un messaggio ritenuto troppo sovversivo, troppo scomodo. Paradossalmente, proprio questa ostracizzazione ne alimentò il mito, rendendolo un'icona della contro-cultura e un testo di riferimento per lo studio delle tecniche di guerriglia e contro-guerriglia perfino negli ambienti militari occidentali, tra cui il Pentagono stesso.
Gillo Pontecorvo, grazie anche alla fervida penna di un Solinas in stato di grazia, dipinge un’Algeri eterea e brulicante, dove l’esercito francese reprime nel sangue la rivolta indipendentista del ’57. La maestria di Pontecorvo, forgiata nella fucina del neorealismo ma proiettata verso una sintesi unica tra l'asciuttezza documentaristica e il respiro epico, si manifesta nella sua capacità di far emergere la tensione pulsante della città, trasformando i vicoli della Casbah in un teatro shakespeariano di libertà e oppressione. Solinas, dal canto suo, non si limita a ricostruire gli eventi; egli cesella i dialoghi, infonde profondità psicologica ai personaggi e struttura la narrazione con una precisione chirurgica, elevando la cronaca a dramma universale. La sua sceneggiatura è un modello di equilibrio, capace di rappresentare la complessità etica di un conflitto in cui le ragioni e i torti si intrecciano con disarmante lucidità.
È proprio grazie a uno dei capi di quella rivolta, Ali La Pointe, divenuto martire in quei giorni cruenti, che tre anni dopo il popolo algerino riuscirà a coronare quell’anelito libertario. Ma l'opera non si limita a celebrare la figura dell'eroe rivoluzionario; essa scandaglia con implacabile acutezza la psiche del colonizzatore e del colonizzato. Da un lato, l'idealismo intransigente di Ali La Pointe, uomo del popolo trascinato nella Storia; dall'altro, la figura glaciale ma intellettualmente affascinante del Colonnello Mathieu, interpretato con sobria intensità da Jean Martin, che incarna la logica implacabile della ragione di Stato e della guerra psicologica. Il film è un labirinto morale, che si interroga sulla liceità della violenza in nome della libertà e sulla brutalità intrinseca della contro-insurrezione. Non c'è manicheismo: Pontecorvo ci mostra come la spirale di violenza deformi l'umanità di entrambi gli schieramenti, mettendo a nudo il costo atroce della decolonizzazione e il paradosso di una libertà conquistata attraverso mezzi spesso non meno crudeli di quelli contro cui si combatteva.
Un’opera interamente girata in un bianco e nero elegantissimo, con epiche scene di guerriglia urbana, con una colonna sonora strepitosa firmata da Ennio Morricone. Il bianco e nero, ben più di una scelta estetica, è una dichiarazione di intenti: conferisce alla pellicola la patina sgranata e autentica del cinegiornale d'epoca, confondendo la finzione con la documentazione storica e potenziando la sensazione di imminenza e verità. La fotografia di Marcello Gatti è sublime nel catturare la bellezza severa della Casbah e il caos controllato degli scontri. Le scene di guerriglia urbana, girate con un realismo mozzafiato, sono frutto di un meticoloso lavoro di ricostruzione e di un uso sapiente della macchina da presa a mano, che immerge lo spettatore nel cuore dell'azione, conferendo un'urgenza palpabile ad ogni sequenza. La colonna sonora di Ennio Morricone, con le sue percussioni martellanti e le melodie struggenti che si fondono con i canti tradizionali algerini e il rumore assordante degli scontri, è un'altra tessera fondamentale di questo mosaico sensoriale. Essa non si limita ad accompagnare le immagini, ma diviene parte integrante della narrazione, amplificando il pathos e la tensione, e contribuendo a scolpire indelebilmente nella memoria collettiva le immagini e i suoni di un'epoca tormentata. "La Battaglia di Algeri" non è solo un film; è un monumento cinematografico alla tenacia della libertà, un monito universale sulla complessità della lotta armata e un'inesauribile fonte di dibattito sulla storia, la politica e l'etica, la cui risonanza non accenna a diminuire, attestandosi come un classico intramontabile che continua a interrogare il nostro presente.
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