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La collina del disonore

1965

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Una duna artificiale, un tumulo di sabbia e fatica eretto nel cuore del deserto libico, è il centro gravitazionale, il Golgota laico attorno a cui Sidney Lumet orchestra il suo più spietato e claustrofobico dramma da camera a cielo aperto. La collina del disonore (un titolo italiano che, per una volta, coglie il punto più del secco e fattuale The Hill originale) non è un film di guerra, ma un film sulla guerra, o meglio, sulla sua logica perversa e autistica, distillata fino alla sua essenza più pura e disumana: la disciplina come fine in sé, il regolamento come divinità crudele e sabbiosa. Se Albert Camus avesse scritto un dramma per il teatro Grand Guignol ambientandolo in un campo di prigionia militare britannico, probabilmente assomiglierebbe a questo.

Siamo nel 1965. Sean Connery è all'apice del suo olimpo bondiano. Ha già salvato il mondo in tre occasioni, con un sopracciglio inarcato e un Vodka-Martini in mano. E proprio qui, in questo gesto di audacia quasi suicida, si misura la statura dell'attore. Connery si spoglia non solo dello smoking di Savile Row, ma dell'intera corazza mitologica del superuomo da cocktail, per indossare i panni sudati e laceri del sergente maggiore Joe Roberts. È una performance che è una dichiarazione d'intenti: un'abiura del glamour in favore del grano grosso della realtà, una discesa volontaria agli inferi della recitazione fisica, terrena, disperata. Il suo Roberts, degradato per aver picchiato un superiore durante un'azione di combattimento, non è un eroe convenzionale. È un professionista della guerra, un uomo che crede nelle regole fino a quando queste non diventano il paravento della psicosi. Il suo peccato originale non è l'insubordinazione, ma l'aver infranto l'omertà di un sistema che preferisce un soldato morto a un ufficiale umiliato.

Lumet, fresco del trionfo de L'uomo del banco dei pegni e ancora memore della stanza pressurizzata di 12 Angry Men, applica il suo metodo quasi clinico a uno spazio antitetico: un'immensità desertica che, paradossalmente, si rivela più soffocante di qualsiasi tribunale. Il campo di detenzione è un non-luogo, un panopticon foucaultiano dove il sole è il guardiano più implacabile. La fotografia di Oswald Morris, un bianco e nero così abbagliante da far male agli occhi, non si limita a descrivere il caldo: lo incarna. Trasforma la luce in un ulteriore strumento di tortura, appiattisce le ombre, cancella ogni speranza di refrigerio. Si sente il sudore evaporare dalla pelle, la sabbia scricchiolare sotto gli stivali, il respiro farsi corto. Lumet e Morris non filmano il deserto, filmano la sete.

Il motore della narrazione, la collina stessa, è un capolavoro di simbolismo concreto. È un compito Sisifeo, un'invenzione di pura perfidia militare progettata per spezzare non il corpo, ma lo spirito. Correre su e giù per quel pendio innaturale, carichi di equipaggiamento, sotto un sole assassino, è un'attività priva di scopo bellico, logistico o strategico. Il suo unico fine è l'umiliazione, la riduzione dell'uomo a bestia da soma, un rituale di sottomissione che serve a ribadire il potere assoluto di chi comanda. È la versione militare del "fossato" di Cool Hand Luke, ma senza alcuna traccia di romantica ribellione. Qui, la sfida al sistema non porta alla leggenda, ma al collasso cardiaco.

A presiedere questo rito sadico c'è il Sergente Anziano Williams, interpretato da un Ian Hendry spaventosamente perfetto. Williams non è il classico cattivo da operetta. È peggio: è un burocrate del dolore, un piccolo uomo a cui il potere ha concesso un'unica, minuscola sfera di influenza e che la esercita con lo zelo di un inquisitore. La sua crudeltà non è passionale, ma metodica, quasi religiosa. Crede nella Collina come un monaco crede nel suo cilicio. Vede in essa uno strumento necessario per forgiare "veri uomini", senza rendersi conto di aver creato un altare per i propri demoni. Il suo scontro con Roberts non è semplicemente tra prigioniero e carceriere, ma tra due opposte concezioni della disciplina: quella di Roberts, funzionale e legata a un codice d'onore, e quella di Williams, ipertrofica, fine a se stessa, patologica. È un duello che ricorda quello tra il Capitano Bligh e Fletcher Christian, ma spogliato di ogni esotismo e ridotto all'osso della psicologia del potere.

Intorno a questi due poli magnetici, Lumet assembla un coro greco di comprimari memorabili. C'è il Regimental Sergeant Major Wilson di Harry Andrews, un uomo intrappolato tra il dovere e la decenza, un Pilato in uniforme che si lava le mani con la sabbia del deserto. C'è il medico militare interpretato da Michael Redgrave, voce della ragione e della scienza in un mondo scivolato nella follia ritualistica, la cui impotenza è forse la condanna più dura dell'istituzione stessa. E ci sono gli altri prigionieri, ciascuno un frammento di un'umanità spezzata: il fragile Stevens (Alfred Lynch), la cui morte diventa il catalizzatore della tragedia; il cinico e opportunista King (Ossie Davis), che porta nel deserto africano le cicatrici di un'altra forma di oppressione.

Il film, nella sua struttura implacabile, evoca quasi la tragedia classica, rispettando le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Tutto si svolge in pochi giorni, all'interno del recinto del campo, attorno a un unico, ossessivo conflitto. La sceneggiatura di Ray Rigby (basata sulla sua stessa opera teatrale e sulla sua esperienza personale) è un meccanismo a orologeria di rara precisione, dove ogni dialogo è teso come la corda di un arco, ogni silenzio è carico di minaccia. È un cinema di volti sudati in primo piano, di corpi esausti, di sguardi che dicono più di mille parole. Lumet, maestro del dramma attoriale, dirige il suo cast come un direttore d'orchestra, alternando assoli lancinanti a potenti crescendo corali.

Inserito nel suo contesto, La collina del disonore è una scheggia impazzita. Esce in un'epoca che inizia a rimettere in discussione le narrazioni eroiche della Seconda Guerra Mondiale. Se film come Il ponte sul fiume Kwai avevano già introdotto il tema della follia militare, lo facevano ancora su una scala epica, quasi romantica. Lumet, al contrario, compie un'operazione di brutale riduzione. Non c'è epica nel suo film, non c'è gloria, non c'è nemmeno un nemico esterno. Il nemico è interno, annidato nelle pieghe del regolamento, nella cieca obbedienza, nella disumanizzazione che ogni sistema autoritario, anche quello considerato "giusto", porta inevitabilmente con sé. Il film è una sorta di Cuore di tenebra conradiano dove la giungla è il deserto e Kurtz è un sergente con manie di grandezza, un uomo che ha "guardato nell'abisso" del potere e l'abisso gli ha sorriso.

La sequenza finale è un pugno nello stomaco, un anti-catarsi che nega allo spettatore qualsiasi consolazione. La rivolta dei prigionieri non è un'esplosione liberatoria, ma un caos disperato e scomposto che si rivolta contro la sua stessa guida. L'immagine di Roberts, ferito e inerme, portato via dai suoi stessi compagni che urlano il suo nome in un coro selvaggio, è una delle conclusioni più amare e ambigue della storia del cinema. Non c'è vittoria, non c'è giustizia, solo il crollo di un ordine precario in un disordine ancora più spaventoso. L'istituzione, forse, verrà riformata, qualche testa cadrà, ma la Collina, come archetipo della sottomissione insensata, rimane. È un'allegoria potente e universale che trascende il contesto militare per parlarci di ogni ufficio, di ogni fabbrica, di ogni struttura gerarchica in cui la regola prevale sulla ragione. Un frammento di vetro nel cuore del cinema di guerra, un capolavoro spietato che ancora oggi, a decenni di distanza, ci lascia senza fiato e coperti di polvere.

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