L.A. Confidential
1997
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Regista
Dal romanzo di James Ellroy nasce questo sontuoso noir a firma di Curtis Hanson, sicuramente il film migliore della sua carriera. Non si tratta semplicemente di un raffinato omaggio al genere, ma di una rilettura audace e stratificata, un affresco vivido e brutale che eleva Hanson da abile mestierante a maestro della messa in scena. La sua regia, precisa come un bisturi eppure fluida come un movimento di macchina classico, intesse una trama complessa senza mai perdere il filo, guidando lo spettatore attraverso i vicoli bui di una Los Angeles corrotta e seducente.
1952: Jack Vincennes, Bud White, Ed Exley sono tre detective della polizia di Los Angeles che cercano, ciascuno a suo modo e con i suoi metodi, di fare chiarezza in una strage apparentemente bollata come rapina finita male. La scelta di questo preciso anno non è casuale: siamo all'apice del dopoguerra americano, un'epoca di apparente prosperità e conformismo che celava, sotto la patina di Hollywood e del sogno californiano, un ventre molle di corruzione, razzismo sistemico e sfruttamento. La LAPD, in particolare, era nota per la sua brutalità e pervasività, un'istituzione permeata da un machismo tossico e da una gerarchia che premiava l'obbedienza cieca più che la giustizia.
In una caffetteria sono infatti stati ritrovati sei cadaveri, compreso un ex poliziotto che era appena stato congedato per violenza. Questa scena iniziale, brutale e inaspettata, è il battesimo di fuoco per lo spettatore, un'immersione immediata nella violenza gratuita che permea l'universo ellroyano, un universo dove la violenza non è mai catartica, ma semplicemente una manifestazione della disintegrazione morale.
Jack lavora nella Narcotici ed è il tipo di sbirro che ama i riflettori, collabora con una rivista scandalistica e cerca di mettersi in mostra in ogni modo, Bud è lo sbirro violento ma ha i suoi motivi visto che da ragazzo ha assistito all’uccisione della madre da parte di suo padre, Ed è figlio di un eroe della polizia ed è disposto a tutto pur di fare carriera ma conserva una propria integrità morale. Questi archetipi del noir – il poliziotto corrotto ma affascinante (Kevin Spacey nella sua performance più smagliante prima della caduta), il bruto dal cuore d'oro (Russell Crowe, fisico e vulnerabile), l'idealista ambizioso ma moralmente complesso (Guy Pearce, la cui freddezza cela un fuoco interiore) – sono portati in scena con una maestria attoriale che definisce il film. Le loro traiettorie, inizialmente antagoniste e poi intrecciate da una necessità quasi fatale, sono lo scheletro su cui si innesta la carne viva del racconto. Non ci sono eroi senza macchia, solo uomini dilaniati dalle proprie pulsioni, costretti a navigare un mare di menzogne per trovare un barlume di verità.
La convergenza di queste tre diverse personalità forgia la narrazione che si dipana multiforme. Non è la storia di un singolo protagonista, ma di un sistema, di un'epoca, di un'intera città inghiottita dal peccato. La Los Angeles di Hanson è un incubo dorato, un palcoscenico per i sogni frantumati e le ambizioni perverse. Il film evoca l'atmosfera e la disillusione dei grandi noir del passato, da Vertigo per la sua ossessione per l'identità e l'illusione, a Chinatown per la sua denuncia della corruzione sistemica e della perdita dell'innocenza, sebbene qui il male sia ancora più intrinseco e meno mitigabile.
Come cerchi concentrici irradiati da un unico punto focale si aprono da questa storia nuove indagini legate a nuove vicende: un poliziotto corrotto, una femme fatale che assomiglia a Veronica Lake, un ricco magnate che tiene un Harem colmo di ragazze a cui impone interventi plastici per assomigliare a star del cinema. Questa struttura a spirale è la forza propulsiva del film, che svela strato dopo strato la profondità della putrefazione. La corruzione non è un'anomalia, ma la norma, radicata in ogni fibra dell'istituzione e della società. La figura di Lynn Bracken, interpretata da una Kim Basinger da Oscar, non è la solita tentatrice del noir; è una donna che ha scelto la sua prigione dorata, costretta a incarnare un'illusione (la Veronica Lake rediviva) in un mondo dove l'autenticità è un lusso che nessuno può permettersi. È il simbolo di una Hollywood che cannibalizza le proprie icone, le riproduce in serie, le rende merce. E Pierce Patchett, il magnate dietro a questo macabro teatro, è l'architetto di questa falsità, il demiurgo di un mondo dove la bellezza è clonata e l'identità è un abito da indossare.
Gradatamente emergerà tutto il marcio del mondo, e scavando ancora si giungerà al nero abisso del cuore degli uomini. Il film non offre facili catarsi o redenzioni complete. La vittoria, se pur c'è, è effimera e macchiata. È un'esplorazione impietosa della natura umana, della sua capacità di menzogna e violenza, ma anche della sua sorprendente resilienza e del suo bisogno di verità, per quanto dolorosa essa sia. La violenza è onnipresente, ma mai gratuita; è il linguaggio di un mondo senza pietà, il risultato inevitabile di scelte dettate dalla paura, dall'avidità o dalla disperazione.
Dopo la gloria degli anni ’50 il genere Noir aveva attraversato un periodo di relativa aridità, questo film pompa nuova linfa nelle vene del genere ridefinendo il concetto di Noir Moderno. Negli anni '70 e '80, il noir si era spesso trasformato in esercizio di stile, o aveva abbracciato la postmodernità perdendo parte della sua cruda visceralità. L.A. Confidential, invece, riesce nell'impresa di essere sia filologicamente fedele allo spirito del noir classico (la narrazione a più voci, le ombre lunghe, il fatalismo, la figura della femme fatale), sia profondamente innovativo nella sua spietata rappresentazione della corruzione sistemica e della disintegrazione dei valori. La fotografia di Dante Spinotti, con i suoi contrasti taglienti e i colori saturi ma sporchi, contribuisce a creare un'atmosfera che è al tempo stesso lussuosa e opprimente, in perfetta sintonia con la dualità del film. È un capolavoro che non solo ha riacceso l'interesse per un genere che sembrava confinato ai cineteca, ma ha anche influenzato una generazione di cineasti, dimostrando come la ricchezza tematica e la complessità morale possano ancora trovare un pubblico vasto e critico.
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