La Conversazione
1974
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Regista
Francis Ford Coppola si cimenta in una spy story dal forte sapore introspettivo e autunnale. Un'opera che, pur emergendo tra due giganti della sua filmografia come i primi due capitoli de Il Padrino, dimostra una maturità autoriale e una profondità tematica sorprendente, quasi premonitrice. Non si tratta di un semplice thriller, ma di un lucido e agghiacciante studio psicologico, una discesa nell'abisso della solitudine e della paranoia che risuona con l'eco sinistra dello scandalo Watergate, contemporaneo alla sua uscita. È un film che, nel cuore della "New Hollywood", osa rallentare i ritmi, esplorare le crepe dell'anima umana e interrogarsi sulla natura della verità in un'epoca di crescente sfiducia.
Harry Caul è un paranoico genio delle intercettazioni, un artigiano meticoloso dell'ascolto, le cui mani esperte manipolano nastri e frequenze con una precisione quasi liturgica. La sua vita è un santuario ermetico, protetto da inferriate mentali e fisiche, un microcosmo di solitudine e rito, scandito dal suono del suo sassofono, unica valvola di sfogo per un'anima tormentata. Gli viene dato il compito, apparentemente di routine, di intercettare una coppia di giovani in una piazza. Ma questa non sarà un'indagine come le altre.
Ascoltando e riascoltando la conversazione dei giovani – un frammento di dialogo ambiguo e sfuggente catturato con strumenti sofisticati ma imperfetti – Harry si convince che siano amanti e che colui che gli ha affidato il lavoro sia il marito intenzionato ad ucciderli. Inizia qui la vera tortura per Harry, un uomo che ha eretto un muro tra la sua etica professionale e le conseguenze morali del suo mestiere. Roso dai rimorsi per un precedente lavoro finito in tragedia, non sa come avvertire la coppia, ma intanto scopre, con uno scarto narrativo destabilizzante che ribalta le sue convinzioni, che è il marito ad essere stato ucciso dalla coppia. Da quel momento entrerà in una spirale di vendette e ricatti che lo renderà paranoico, non più mero osservatore ma vittima della sua stessa professione. Il film ci immerge nella sua ossessione uditiva, facendoci riascoltare frammenti, isolare parole, percepire sfumature, finché l'ambiguità del parlato diventa un pozzo senza fondo di interpretazioni, dove ogni sillaba può nascondere un inganno o una verità inconfessabile. Il sound design, opera magistrale di Walter Murch, diventa così coprotagonista, trasformando il rumore di fondo in un coro minaccioso e la chiarezza vocale in una fonte di angoscia.
La scena finale (la più bella del film) lo vede distruggere tutti i mobili di casa, il suo ultimo rifugio inviolabile, alla ricerca di inesistenti cimici che potessero spiarlo, un auto-sabotaggio nichilista che riduce il suo mondo a un cumulo di macerie. È l'atto disperato di un uomo che, avendo invaso le vite altrui, sente ora la propria violata, intrappolato in una gabbia invisibile di paranoia autoindotta. Si siede poi malinconicamente sulle macerie suonando il suo Sax, unica voce rimastagli, un lamento solitario che emerge dal silenzio assordante della sua distruzione.
La percezione della realtà viene distorta e il protagonista non sa più cosa è reale e cosa non lo sia, un tema che Coppola indaga con una sensibilità quasi orwelliana. Nonostante tutta la sua perizia tecnica nelle intercettazioni, che gli permette di carpire e analizzare ogni minima vibrazione sonora, si sente irrimediabilmente perduto perché completamente scollato dal tessuto reale. La sua capacità di decifrare i suoni del mondo esterno si scontra con la sua incapacità di decifrare la propria psiche, conducendolo in un isolamento sempre più profondo.
L’opera di Coppola ricorda molto da vicino Blow Up di Antonioni, dove lì era un fotografo a provare la stessa sensazione tramite il senso della vista, l'immagine congelata e apparentemente svelatrice che si rivela enigmatica e muta, mentre qui viene coinvolto il senso dell’udito con il medesimo distacco dal Pragma. Entrambi i film sono capolavori sull'inaffidabilità della percezione e sulla solitudine esistenziale dell'artista/tecnico, che tenta di cogliere la realtà attraverso un filtro meccanico, solo per trovarsi di fronte a un vuoto incomprensibile. Se Antonioni dipingeva l'alienazione visiva della Swinging London, Coppola ci immerge nell'eco assordante della paranoia americana, un'inquietudine invisibile che divora la fiducia e annienta ogni certezza. A questo dittico si potrebbe aggiungere idealmente anche Blow Out (1981) di Brian De Palma, che completa il trittico con un ingegnere del suono come protagonista, portando il tema della manipolazione sonora a nuove, terrificanti conclusioni e creando un affascinante filone cinematografico sul rapporto tra percezione sensoriale, tecnologia e verità.
La Conversazione è anche una dettagliata riflessione sul ruolo della parola carpita, sul rumore del mondo intorno a noi e su come interpretarlo. Non è solo ciò che viene detto, ma come viene detto, e soprattutto come viene ascoltato e reinterpretato, a modellare la nostra realtà. È un'acuta indagine sulla privacy e sulla sorveglianza, temi che, a quasi cinquant'anni dalla sua uscita, sono più attuali che mai in un'epoca di sorveglianza di massa e di "big data".
Un grande Gene Hackman nei panni di un personaggio che ci appare quantomai autentico nelle sue nevrosi e soprattutto nelle sue più intime debolezze. La sua interpretazione è un capolavoro di sottrazione, dove ogni tic, ogni sguardo sfuggente, ogni gesto minimale comunica un'agitazione interiore devastante. Non è l'eroe carismatico di altri ruoli, ma un antieroe fragile, la cui vulnerabilità lo rende terribilmente umano. Hackman incarna con maestria l'angoscia silenziosa di un uomo intrappolato non solo dalla sua professione, ma dalla sua stessa coscienza, rendendo Harry Caul un'icona del cinema paranoico americano. La sua performance è un silenzioso grido di aiuto che riecheggia ben oltre l'ultima, agghiacciante inquadratura.
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