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La Dolce Vita

1960

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Un Fellini iconografico dipinge un affresco della vita alto-borghese nella Roma degli anni 60. Un'era, quella del “Miracolo Economico”, in cui la capitale non era più solamente il centro della politica e della religione, ma l'epicentro di una mondanità sfrenata, di un glamour internazionale che attirava star di Hollywood, magnati e una nuova aristocrazia del denaro. È un quadro grandioso e impietoso, dove la patina del lusso e del divertimento nasconde un vuoto morale, una profonda anomia che corrode l'anima della città e dei suoi abitanti più in vista.

Si narrano le vicende di un giornalista di gossip, Marcello Rubini, che si aggira nella vita notturna del jet set romano. Un cronista mondano che, pur aspirando a una vita da intellettuale e scrittore, si ritrova irretito e inestricabilmente legato a quel sottobosco scintillante e superficiale. Egli non è solo un osservatore, ma un partecipante attivo, un surfista sulle onde dell'edonismo, della chiacchiera e delle relazioni effimere.

Il personaggio di Marcello contiene una duplice chiave di lettura: da un lato il viveur affascinante a suo agio in ogni ambiente, crogiolato nel gossip e nella grande famiglia delle creature notturne, dall’altro l’uomo meschino, con una fidanzata trascurata sull’orlo del suicidio, uomo inetto e ignavo che si lascia trasportare dagli eventi senza opporre la minima resistenza. La sua "ignavia" non è solo pigrizia, ma una vera e propria paralisi esistenziale, una condizione che lo allontana da qualsiasi autenticità. È un'anima alla deriva in un mare di superficialità, un Dostoevskij senza redenzione, un personaggio che incarna il male di vivere di una società che, avendo raggiunto l'agiatezza materiale, si trova spiazzata di fronte alla sua stessa vacuità spirituale. La sua aspirazione a scrivere un libro, costantemente rimandata, è l'emblema di un potenziale inespresso, soffocato dal richiamo seducente ma distruttivo della mondanità. Marcello è l'incarnazione di una crisi esistenziale che in quegli anni trovava espressione anche nella filosofia sartriana e nelle opere di Antonioni, dove l'alienazione e l'incapacità di comunicare diventavano temi centrali.

Le sue peregrinazioni nella notte romana lo porteranno a passare in rassegna una galleria di personaggi di vario tipo: nobili decaduti che rivendono il blasone in feste kitsch, stelline del cinema affamate di successo pronte a tutto per un flash, vecchi playboy in disarmo aggrappati a un'illusoria giovinezza, bellezze promiscue ed ambigue che popolano i salotti e i locali notturni. Queste non sono semplici comparse, ma maschere grottesche di una commedia umana senza catarsi, uno specchio deformante della nuova borghesia e di un'aristocrazia che, persa la sua funzione sociale, si crogiola in un'esistenza priva di scopo, fatta di riti vuoti e apparenze. La figura del padre di Marcello, che appare brevemente per poi sparire, accentua il senso di un'eredità morale assente, di una guida perduta in un mondo senza punti di riferimento. Ogni incontro, da quello con la giovane Paola, simbolo di un'innocenza perduta, a quello con lo scrittore Steiner, apparente oasi di intellettualità che si rivelerà fragile e tragica, è una tappa nel processo di disillusione e scivolamento di Marcello.

Tra queste grottesche marionette della notte incontrerà una bellissima donna che lo trascinerà in una girandola di avvenimenti a cui non può opporsi. Sylvia, l'attrice svedese interpretata da Anita Ekberg, non è solo una diva, ma una figura quasi mitologica, una valchiria nordica calata nella decadente Roma, simbolo di una vitalità primitiva e incontaminata, un'energia vitale che Marcello non riesce ad abbracciare pienamente, rimanendone folgorato ma anche impaurito.

Tante scene entrate a far parte del bagaglio iconografico di ogni appassionato di cinema: la scena d’apertura con il Cristo trasportato dall’elicottero sopra le rovine e i palazzi moderni di Roma, una fusione tra sacro e profano che annuncia il tono del film, interrogandosi sulla spiritualità in un'epoca di materialismo sfrenato; Anita Ekberg che urla al suo Marcello: “Marcello come here!” mentre l’acqua della Fontana di Trevi le bagna il viso, un momento di pura sensualità e magia visiva, un'immersione pagana in un'utopia effimera che rimarrà l'apice di un desiderio irrealizzato. Ma anche la sequenza della festa nella villa dei nobili decaduti, un baraccone di solitudini mascherate da divertimento, o l'orgia finale nella villa al mare, culmine della depravazione e della disperazione, dove il divertimento si trasforma in una farsa grottesca e senza gioia. Fellini, con la collaborazione del direttore della fotografia Otello Martelli (e successivamente Aldo Tonti), crea un bianco e nero sontuoso e contrastato, che dona a ogni inquadratura un'aura quasi onirica, unendo il realismo della cronaca mondana a una visione sempre più surreale e introspettiva.

Con questo film, è stato detto da più parti, muore definitivamente il neorealismo in Italia e nasce un Cinema che accarezza il sogno, la malinconia, il languido ricordo celebrando la realtà attraverso i suoi canoni più suggestivi. "La Dolce Vita" non si limita a rappresentare la realtà sociale come faceva il neorealismo post-bellico, ma la trasfigura attraverso il filtro della memoria, del sogno e dell'inconscio, spostando il focus dalla denuncia collettiva all'esplorazione dell'angoscia esistenziale individuale. È un cinema che guarda all'interno, che indaga le nevrosi e le vacuità di un'epoca, anticipando di fatto la Nouvelle Vague francese e segnando un punto di svolta nella cinematografia mondiale. Fellini inventa un linguaggio nuovo, il "felliniesco" per eccellenza, fatto di sfarzo e desolazione, vitalità e stanchezza, un circo malinconico di figure eccentriche e memorabili che diventeranno il suo marchio di fabbrica. Il film, presentato al Festival di Cannes e vincitore della Palma d'Oro, generò scandalo e ammirazione, diventando subito un fenomeno culturale che diede anche il nome al termine "paparazzo" (dal personaggio di Paparazzo, uno dei fotografi che seguono Marcello), ormai entrato nel lessico comune.

Particolare menzione alla strepitosa prova di un grande Mastroianni che ci manca ogni giorno di più. Il suo Marcello Rubini non è un personaggio da amare o condannare, ma da comprendere nella sua complessa fragilità. Mastroianni incarna con una naturalezza disarmante l'eleganza svagata e l'inquietudine latente, il carisma superficiale e la disperazione silenziosa del suo personaggio, rendendolo icona di un'intera epoca. Esattamente come il lucido genio di Federico Fellini, che con "La Dolce Vita" non si è limitato a girare un film, ma ha scolpito un'epoca, un sentimento, un'opera d'arte senza tempo che continua a interrogarci sulla natura della felicità, del successo e del significato ultimo dell'esistenza umana in un mondo sempre più disincantato.

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