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La donna del ritratto

1944

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Regista

Un vetro sottile separa l'ordine dal caos. Una vetrina, una finestra, la lente di un occhiale. Per il professor Richard Wanley, uomo la cui esistenza è un quieto trattato di routine e rispettabilità accademica, quella barriera è tutto. Dietro di essa, il suo club per gentiluomini, con le poltrone in pelle, l'odore di sigari e la conversazione erudita; il suo appartamento silenzioso, temporaneamente svuotato dall'assenza della famiglia. Davanti, riflessa nel vetro, c'è la città, un notturno pulsante di possibilità e pericoli. E, soprattutto, c'è lei: una donna in un ritratto, un'ossessione ad olio su tela la cui bellezza enigmatica è un invito silenzioso a infrangere quella barriera.

Fritz Lang, architetto supremo della paranoia e maestro esule del pessimismo cosmico teutonico, non filma un semplice thriller. La donna del ritratto (1944) è una seduta psicoanalitica mascherata da film noir, una discesa agli inferi borghese che si svolge quasi interamente nella topografia dell'incubo di un uomo qualunque. Edward G. Robinson, in una delle sue interpretazioni più sfumate e magnifiche, presta il suo volto, solitamente associato alla brutalità gangsteristica, a un uomo la cui unica violenza, fino a quel momento, era stata confinata alle dissezioni critiche dei testi classici. Il suo Wanley è l'epitome dell'Io freudiano: razionale, controllato, un uomo che può disquisire sul Cantico dei Cantici ma la cui libido è sigillata sotto strati di tweed e convenzioni sociali. Lang, che aveva già mappato la mente di un deviato nella sua Germania con il seminale M - Il mostro di Düsseldorf, qui sposta l'indagine dal criminale patologico al cittadino modello, suggerendo, con una perfidia squisita, che il mostro non è un'anomalia esterna ma un potenziale dormiente in ognuno di noi.

La narrazione si avvia con la precisione di un meccanismo a orologeria svizzero, un marchio di fabbrica langhiano. L'incontro casuale con la donna del ritratto in carne e ossa, la splendida e ambigua Alice Reed (una Joan Bennett che incarna una femme fatale più per proiezione che per intenzione), è il granello di sabbia che inceppa l'ingranaggio perfetto della vita di Wanley. Un drink, una visita all'appartamento di lei per ammirare altri schizzi, e la trappola scatta. Non è una trappola tesa da Alice, ma dal Fato stesso, quella divinità cieca e maligna che governa l'universo di Lang. L'irruzione del violento amante di Alice innesca una reazione a catena che precipita il professore in un abisso di omicidio accidentale, occultamento di cadavere e panico crescente.

Ciò che rende La donna del ritratto un capolavoro di tensione psicologica è il modo in cui Lang salda la prospettiva dello spettatore a quella di Wanley. Non osserviamo la sua disintegrazione da una distanza di sicurezza; la viviamo con lui. Ogni ombra sembra un testimone, ogni sirena in lontananza un preannuncio di cattura. Il mondo esterno, prima neutrale, diventa un labirinto di sguardi accusatori. Lang, memore della sua lezione espressionista, deforma la realtà non attraverso scenografie sbilenche, ma attraverso la percezione febbrile del suo protagonista. La meticolosa sequenza dell'occultamento del cadavere è un pezzo di bravura cinematografica: il professore, inadatto a qualsiasi forma di sforzo fisico o di azione criminale, lotta goffamente con il corpo, le intemperie e la propria coscienza. È una sequenza che potrebbe quasi sfiorare la commedia nera, se non fosse per il terrore palpabile che Robinson riesce a comunicare. È l'incubo di ogni uomo perbene: essere giudicato per la peggiore azione della propria vita, un'azione commessa quasi per caso.

Il film può essere letto come un dialogo perverso con un altro grande racconto sulla dualità dell'animo umano: Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson. Ma se Jekyll scatena il suo alter ego attraverso un siero, Wanley lo libera con un singolo, banale atto di debolezza: cedere alla curiosità, attraversare quella vetrina. Il suo Hyde non è un mostro grottesco, ma un uomo spaventato che commette errori sempre più gravi nel tentativo di preservare la facciata del suo Jekyll. Questa metamorfosi è amplificata dalla comparsa del ricattatore interpretato da un Dan Duryea viscido e memorabile, un avvoltoio che fiuta l'odore della colpa e della disperazione. Lui è l'elemento puramente noir, il marciume del sottobosco criminale che viene a reclamare il suo tributo dall'alta borghesia.

E poi, c'è il finale. Quel finale. Per decenni criticato come una scappatoia, un'assoluzione posticcia imposta dal Codice Hays per evitare che un protagonista "positivo" la facesse franca dopo aver commesso un omicidio. Ma rileggere la conclusione del film come un semplice "lieto fine" significa fraintendere completamente l'intento sovversivo di Lang. L'intera vicenda si rivela essere un sogno, un incubo partorito dalla mente di Wanley, assopitosi sulla poltrona del suo club dopo aver letto il Cantico dei Cantici. Al suo risveglio, il mondo è di nuovo al suo posto. Ma è davvero così? L'orrore, scopriamo, non risiedeva nell'atto dell'omicidio, ma nella sua potenzialità. Il vero crimine non è stato commesso nel mondo fisico, ma nel teatro del subconscio di Wanley.

Questa svolta, lungi dall'essere un tradimento, è in realtà una pugnalata di genio meta-narrativo. Trasforma il film da un eccellente thriller a un profondo trattato sulla repressione. È la versione hollywoodiana e accessibile di un cortometraggio surrealista di Buñuel. L'intera avventura noir non è altro che la visualizzazione della crisi di mezza età di un uomo, delle sue fantasie erotiche e delle sue paure più profonde: la paura della passione, la paura di perdere il controllo, la paura di distruggere la vita che si è meticolosamente costruito. Il sollievo che prova al risveglio è immediatamente minato dalla consapevolezza terrificante di ciò che la sua mente è capace di concepire. Lang non assolve Wanley; lo condanna a una prigione ben peggiore del braccio della morte: la conoscenza di sé, la consapevolezza del caos che si agita appena sotto la superficie della sua rispettabilità.

Il film, uscito nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, risuonava con un'ansia collettiva palpabile. In un'America in cui milioni di uomini erano al fronte e le strutture familiari e sociali erano in uno stato di flusso, la storia di un uomo la cui famiglia è "via per le vacanze" e che si ritrova solo ad affrontare tentazioni e pericoli inaspettati toccava un nervo scoperto. Era una favola nera sulla fragilità del fronte interno, non solo quello nazionale, ma quello psicologico di ogni individuo.

Un anno dopo, Lang riunirà lo stesso trio di attori (Robinson, Bennett, Duryea) per La strada scarlatta (Scarlet Street), un'opera ancora più cupa e spietata che può essere vista come la gemella malvagia de La donna del ritratto. È come se Lang avesse voluto dire al pubblico: "Avete pensato che il sogno fosse spaventoso? Ora vi mostro cosa succede quando tutto accade davvero". In Scarlet Street, non c'è risveglio, non c'è sollievo, solo una discesa senza ritorno in un inferno di umiliazione e follia. I due film, visti insieme, formano un dittico insuperabile sulla debolezza maschile e sulla natura distruttiva del desiderio represso.

La donna del ritratto rimane un'opera fondamentale, un noir dell'anima la cui influenza si estende fino a opere come Eyes Wide Shut di Kubrick, un altro viaggio onirico nella psiche di un uomo borghese messo di fronte alle sue fantasie più oscure. Fritz Lang, con la sua precisione chirurgica e il suo sguardo disincantato sull'umanità, non ci ha dato solo una storia di suspense. Ci ha mostrato che la finestra più pericolosa non è quella che dà sulla strada, ma quella che si affaccia sui recessi inesplorati della nostra stessa mente. E una volta che abbiamo sbirciato attraverso di essa, non possiamo più fingere di non sapere cosa si nasconde dall'altra parte.

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