La favorita
2018
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Regista
L'aria che si respira alla corte della Regina Anna non è quella salubre e rarefatta del potere, ma il miasma denso e dolciastro di un corpo in decomposizione. Yorgos Lanthimos, entomologo greco dell'assurdo esistenziale, abbandona le asettiche geometrie dei suoi incubi moderni per indossare parrucca e corsetto, ma il suo bisturi non ha perso il filo. Anzi, affondando nella materia molle del dramma in costume, ne scopre il cuore pulsante e purulento. La Favorita non è un film storico; è un'autopsia. Un'autopsia condotta con la precisione di un orologiaio e la crudeltà di un bambino che stacca le ali a una mosca, il tutto sotto la luce tremolante delle candele che evoca il Stanley Kubrick di Barry Lyndon, ma se Kubrick era un pittore ieratico che congelava la storia in quadri di funerea bellezza, Lanthimos è un vignettista alla Hogarth sotto acido, che deforma la realtà per rivelarne la grottesca verità.
La grammatica visiva del film è la sua prima, fondamentale dichiarazione d'intenti. L'uso ossessivo del grandangolo e del fisheye, affidato al genio di Robbie Ryan, non è un vezzo stilistico. È una tesi. I corridoi si incurvano come le costole di una balena morente, le stanze opulente diventano bocce per pesci dorati, prigioni sferiche dove i personaggi nuotano in cerchi sempre più stretti. Questa distorsione ottica è il riflesso della distorsione morale e psicologica che domina la corte. Siamo intrappolati con i personaggi, costretti a vedere il mondo attraverso una lente che ne esaspera la paranoia, l'isolamento e la deformità. Ogni inquadratura suggerisce che il lusso e lo sfarzo non sono altro che una gabbia dorata, un terrario di cui noi, come il regista, siamo i sadici osservatori. La camera si muove con una fluidità predatoria, scivolando, spiando, inseguendo, trasformando lo spettatore in un cortigiano invisibile e complice.
Al centro di questo panottico deformante, un triangolo non euclideo di amore, potere e disperazione. Olivia Colman, in una performance che trascende la recitazione per diventare una sorta di dolorosa incarnazione, ci consegna una Regina Anna che è un capolavoro di contraddizioni. È allo stesso tempo un mostro grottesco e una bambina ferita, un tiranno capriccioso e una donna devastata dal lutto (i diciassette conigli, macabro e patetico surrogato di altrettanti figli perduti, sono un'invenzione tanto geniale quanto straziante). I suoi attacchi di gotta sono la manifestazione fisica di un'anima malata, e Colman naviga questo mare di dolore e ridicolo con una maestria che lascia senza fiato.
A contendersi il suo favore, e quindi il potere che ne deriva, sono due facce della stessa, spietata medaglia. Da un lato, Lady Sarah Churchill di Rachel Weisz, tagliente come una scheggia di ossidiana, pragmatica fino alla brutalità, il cui amore per la regina è un impasto inscindibile di affetto sincero e calcolo politico. La Weisz le dona un'armatura di sarcasmo e intelligenza che a malapena nasconde una vulnerabilità che sarà la sua rovina. Dall'altro, la Abigail Hill di Emma Stone, che arriva con il fango del mondo sui vestiti e la determinazione di un parassita che ha trovato il suo ospite. La trasformazione di Stone da fanciulla ingenua a manipolatrice consumata è un saggio di recitazione sottile e letale, che ricorda le grandi arrampicatrici sociali del cinema, da Eva Harrington in All About Eve alla Marchesa de Merteuil de Le relazioni pericolose. Ma a differenza di queste, la vittoria di Abigail è intrisa fin da subito del sapore amaro della cenere.
Ciò che eleva La Favorita al di sopra del semplice dramma di corte è la sua parentela spirituale non tanto con la storiografia, quanto con la Commedia della Restaurazione inglese. Lo script di Deborah Davis e Tony McNamara ha la stessa verve caustica, lo stesso spirito epigrammatico e la stessa ossessione per il sesso come arma e merce di scambio di un'opera di William Wycherley o William Congreve. Le battute sono proiettili, i dialoghi duelli all'arma bianca. La politica, le sorti della guerra contro la Francia, sono un rumore di fondo, un pretesto insignificante per il vero, unico gioco che conta: quello della sopravvivenza e della supremazia all'interno delle mura del palazzo. Lanthimos porta questa sensibilità letteraria nel XXI secolo, spogliandola di ogni polverosa accademia e infondendola di un'energia punk. La scena del ballo anacronistico, un'esplosione di gesti meccanici e contorsioni robotiche, è la sintesi perfetta di questo approccio: un dito medio alzato contro le convenzioni del genere, un momento di liberazione cinetica che rivela la prigione emotiva dei personaggi.
In questo mondo, l'amore non è un sentimento, ma una transazione. L'affetto è una valuta. Il corpo – malato, desiderato, abusato, violato – è il campo di battaglia principale. Lanthimos esplora questa carnalità del potere con un occhio clinico, quasi autoptico, che non concede nulla al romanticismo. I rapporti sessuali sono goffi, disperati, meccanici. Sono esercizi di dominio, non atti d'amore. È una visione del mondo desolata che trova eco nel teatro dell'assurdo di un Beckett, dove i personaggi sono condannati a ripetere all'infinito i loro rituali senza senso in attesa di una fine che non arriva mai.
E la fine, in effetti, non è una liberazione. L'ultima, agghiacciante inquadratura del film è un colpo da maestro, una delle chiusure più potenti e desolate del cinema recente. La sovrimpressione dei conigli sul volto di Abigail, mentre la regina le preme la mano sulla nuca, non è solo una trovata visiva, ma la cristallizzazione di ogni tema del film. Abigail ha vinto. Ha scalato la piramide, ha ottenuto il favore, ha eliminato la sua rivale. Ma la sua vittoria è una prigione. È diventata l'ennesimo coniglio, l'ennesimo surrogato, un oggetto nelle mani di un potere capriccioso e malato. Non c'è trionfo nel suo sguardo, solo la consapevolezza vuota di essere intrappolata per sempre. La stanza si dissolve in un'immagine multipla, distorta, come se la realtà stessa collassasse nel loop infinito di questo sadico gioco di potere.
La Favorita è un perfetto, velenoso bonbon. È un'opera che usa il passato per parlarci con urgenza spietata del presente, della natura immutabile dell'ambizione umana e del prezzo esiziale che si paga per un posto al sole, anche quando quel sole è malato e la sua luce non scalda più. È un film tragico mascherato da commedia nera, un saggio sulla solitudine travestito da intrigo di corte. È il cinema di Yorgos Lanthimos al suo culmine: un meccanismo a orologeria diabolico e perfetto, che ticchetta inesorabile verso un abisso di meravigliosa, intelligente disperazione.
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