La Finestra sul Cortile
1954
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Regista
“Rear window” è forse il film perfetto, un meccanismo narrativo di una purezza e bellezza abbacinanti. Questa perfezione non deriva solo dalla sua sceneggiatura impeccabile, ma dalla sua audace e meticolosa mise-en-scène. La decisione di confinare quasi tutta l'azione a un singolo, vasto set – il cortile e l'appartamento di Jeff – trasforma una potenziale limitazione nel suo più grande punto di forza. L'ambiente si rivela un palcoscenico panoramico dove una moltitudine di drammi umani si svolgono, e ogni finestra diventa una minuziosamente incorniciata mini-pellicola, che cattura il nostro sguardo con la stessa implacabile fascinazione che stringe il protagonista.
La storia è quella di un fotografo costretto ad una convalescenza domestica forzata a causa di una gamba rotta. E Jefferies, interpretato da un James Stewart magistrale nella sua espressione di frustrazione e acuta osservazione, è la nostra guida in questo microcosmo. Ironia della sorte, un uomo il cui mestiere è cogliere la realtà attraverso l'obiettivo di una macchina fotografica, si trova improvvisamente ridotto a un osservatore passivo, dipendente dalla sua lente teleobiettivo per esplorare un mondo che, paradossalmente, si è ristretto alla sua finestra.
Inizierà quasi per gioco a spiare i vicini dalla sua finestra affacciata sul cortile dello stabile in cui vive. Ciò che comincia come un innocente passatempo per combattere la noia – una sorta di teatrino umano in diretta, fatto di frammenti di vite altrui – si evolve gradualmente in un'inquietante indagine criminale, un rompicapo morale ed esistenziale. La quotidianità banale e ripetitiva dei condòmini vicini si frantuma per rivelare una macabra realtà, un cuore di tenebra celato sotto una superficie di normalità borghese. Lentamente prenderà coscienza che uno dei tranquilli vicini spiati nasconde in realtà un assassino.
Lo assisterà nelle sue indagine domestiche la sua fidanzata, un’eterea Grace Kelly, mai così bella. E in effetti, Grace Kelly nei panni di Lisa Fremont è molto più di una figura angelica: è l'incarnazione della modernità, una donna di alta società, sofisticata e intelligente, la cui inizialmente reticenza nei confronti delle ossessioni del fidanzato si trasforma in audace partecipazione. La loro relazione, con le sue tensioni tra il desiderio di Jeff di una vita avventurosa e la propensione di Lisa per la stabilità coniugale, aggiunge un ulteriore strato di complessità emotiva, riflettendo le ansie sociali dell'America degli anni '50.
Un viaggio sottile e quasi morboso nel voyeurismo, nel sordido animo di un assassino osservato nell’ombra. Ed è qui che il film raggiunge vette di genialità meta-cinematografica. Hitchcock non si limita a mostrarci il voyeurismo di Jeff; ci rende complici. Siamo noi, seduti al buio della sala, a spiare attraverso il suo sguardo, a condividere la sua curiosità, la sua eccitazione e, infine, la sua paura. L'atto stesso della visione cinematografica viene dissezionato e messo in discussione, trasformando lo spettatore da semplice osservatore passivo a partecipante attivo di un esperimento morale sulle implicazioni etiche dello sguardo.
Hitchcock rivolge contro se stesso l’indagine della sua opera (sappiamo che il regista passò dei guai per episodi di voyeurismo che gli vennero contestati) e in questo senso Jeff ha indubbiamente una velata connotazione autobiografica. Il regista, noto per la sua ossessiva attenzione ai dettagli e la sua predilezione per il controllo, infonde in Jeff una buona dose della propria personalità e delle proprie pulsioni. Le dicerie, mai del tutto confermate, ma persistenti, riguardo a certe sue "indagini" private su attrici o membri della troupe, trovano in Jeff una proiezione autoriflessiva, quasi un'auto-critica. È come se Hitchcock ammettesse, attraverso il suo alter ego sullo schermo, la sottile linea che separa l'osservazione artistica dall'intrusione patologica, l'ispirazione dalla fissazione.
L’eroe di Hitchcock è costretto ad una prigionia forzata, a causa della sua temporanea infermità. Questa costrizione fisica, lungi dal limitare la portata narrativa, la esalta. Come in altre opere hitchcockiane (pensiamo al ristretto set di Nodo alla gola o alla nave in balia del mare in Prigionieri dell'oceano), il limite spaziale diventa catalizzatore di tensione psicologica e drammatica. Partendo da questa costrizione il film rende compartecipe lo spettatore della frustrazione dell’uomo, della sua noia, del suo bisogno di evasione tramite questo espediente che all’inizio è una sorta di gioco ma poi, come in ogni film di Hitchcock subisce una trasformazione, facendo salire al contempo, la tensione narrativa. La progressione è magistrale: dal divertimento innocuo di spiare una ballerina esuberante o una coppia di neosposi, si passa alla scoperta di un potenziale crimine. La claustrofobia dell'appartamento di Jeff si proietta sul cortile, che da palcoscenico di vite ordinarie si trasforma in un teatro di orrori latenti, un Panopticon dove le identità sono continuamente sotto scrutinio, o almeno così crediamo. La tensione non è solo nel "cosa succederà", ma nel "come Jeff riuscirà a dimostrarlo" e, soprattutto, nel "chi gli crederà?".
Questo altissimo livello di suspence si inserisce alla perfezione nel meccanismo della narrazione, tanto che ora il film è divenuto termine di paragone archetipico di ogni thriller. La sua influenza è palpabile in innumerevoli opere successive, da Brian De Palma con il suo Body Double che ne riprende esplicitamente le premesse, fino a thrillers contemporanei che giocano con la prospettiva limitata o il tema dell'osservazione.
Hitchcock ha spiegato la differenza tra Sorpresa e Suspence. Una bomba sotto un tavolo si spegne, questo fatto è una sorpresa. In un altro caso sappiamo che la bomba è sotto il tavolo, ma non quando si spegnerà o se si spegnerà, e questa è Suspence. La Finestra sul Cortile è l'incarnazione perfetta di questa lezione. La "bomba" non è un ordigno meccanico, ma l'orrore che si annida nella banalità, l'escalation lenta e inesorabile di un sospetto che si trasforma in certezza terrificante. La suspence non deriva da un evento improvviso, ma dalla nostra consapevolezza (o semi-consapevolezza) e da quella di Jeff, che qualcosa di terribile sta accadendo o è già accaduto, e dalla nostra impotenza nel fermarlo o nel verificarlo. Ogni piccolo indizio, ogni variazione nell'illuminazione, ogni suono distante, ogni sguardo tra Jeff e Lisa, contribuisce a tessere questa fitta ragnatela di angoscia, un'ansia crescente che ci lega indissolubilmente al destino del protagonista. È un capolavoro di orchestrazione visiva e psicologica, un esercizio di stile che definisce il genere e continua a incantare per la sua attualità e la sua profondità. E se lo dice lui, c’è da credergli ciecamente.
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