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La Folla

1928

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Regista

King Vidor diresse questo film dietro la consapevolezza che le grandi metropoli americane che stavano allora sorgendo portavano con sè gravi effetti collaterali, tra i quali alienazione, solitudine, emarginazione. Ed è proprio intorno a questo concept che viene edificata questa magnifica opera del cinema muto: il progressivo allontanamento dell’uomo da una realtà ostile e la sua inesorabile deriva psicologica. "La Folla" è un'opera che trascende la sua epoca, offrendo una riflessione ancora attuale sull'alienazione e la disillusione dell'individuo nella società moderna. Vidor, consapevole delle ombre proiettate dalla rapida crescita delle metropoli americane all'alba dei ruggenti anni Venti – un'era di vertiginosa industrializzazione, migrazioni massicce dalle campagne e una promessa di prosperità spesso illusoria – costruisce un racconto potente che esplora le conseguenze psicologiche dell'urbanizzazione e del progresso industriale. Il film, lungi dall'essere una semplice celebrazione del Sogno Americano, ne svela il lato oscuro, mettendo in scena la solitudine, l'emarginazione e la perdita di identità che possono accompagnare la ricerca del successo. Non è un caso che, nello stesso periodo, dall'altra sponda dell'Atlantico, Fritz Lang esplorasse temi analoghi in Metropolis, sebbene con un'estetica più grandiosa e fantascientifica; Vidor, con uno sguardo più intimo e una radice già profondamente calata nel realismo americano, ci offre una disamina del medesimo disagio esistenziale, quello dell'individuo inghiottito dall'ingranaggio. La sua è una critica al progresso cieco, non solo un fenomeno fisico ma una condizione ontologica che rimodella l'anima umana, la sottopone a una pressione senza precedenti, privandola di punti di riferimento stabili e gettandola in un anonimato assordante. È qui che il film anticipa, con decenni di anticipo, le riflessioni sociologiche sull'alienazione del lavoro e sulla "personalità blasé" della metropoli, concetti che avrebbero poi permeato il pensiero di pensatori come Georg Simmel o Emile Durkheim.

La trama, apparentemente semplice, segue le vicende di John Sims, un giovane uomo che lascia la sua piccola città natale per cercare fortuna a New York. Pieno di speranze e ambizioni, John si scontra presto con la dura realtà della metropoli: la competizione spietata, l'anonimato, la difficoltà di affermarsi in un ambiente impersonale e ostile. Il suo percorso, segnato da delusioni e fallimenti, lo porta a mettere in discussione i suoi sogni e le sue aspirazioni. Vidor utilizza la storia di John e di sua moglie Mary per dipingere un ritratto universale della condizione umana nella società moderna. John non è un eroe tragico nel senso classico, ma l'incarnazione dell'everyman, un simbolo della massa cui il titolo allude. La sua ingenuità iniziale, le sue piccole gioie effimere e le sue cocenti delusioni risuonano con una verità straziante, mentre Mary, più pragmatica e radicata, funge da specchio e, a volte, da ancora in questo mare tempestoso di aspirazioni infrante. La sceneggiatura, con maestria, scava a fondo nella psicologia dei personaggi, svelandone le fragilità, le contraddizioni, le piccole meschinità. La macchina da presa, con movimenti fluidi e inquadrature innovative, si fa testimone silenziosa del loro dramma interiore, catturando le sfumature delle loro emozioni con una sensibilità rara per l'epoca. Memorabile, ad esempio, è l'apertura del film, che parte da un'inquadratura aerea che si restringe progressivamente sul grattacielo, poi sull'ufficio, e infine sulla finestra specifica che rivela John Sims, sottolineando in modo visivo e immediato l'insignificanza dell'individuo nella vastità della metropoli e del sistema capitalistico. Particolarmente efficaci sono le scene di massa, in cui l'individuo si perde nella folla anonima – si pensi alla celebre sequenza della scrivania nell'ufficio, con file interminabili di impiegati identici, come ingranaggi di una macchina – simbolo di una società che lo inghiotte e lo priva della sua individualità. La potenza di queste immagini è tale che, anche senza il sonoro, si percepisce il frastuono assordante della città, l'eco del brusio incessante che accompagna l'alienazione di John.

Vidor, con uno stile visivo innovativo per l'epoca, anticipa alcune delle tematiche e delle soluzioni stilistiche che caratterizzeranno il cinema neorealista italiano di decenni successivi. L'uso sapiente del montaggio, l'attenzione al dettaglio realistico (quasi documentaristico in alcune sequenze urbane), la capacità di rappresentare la psicologia dei personaggi con sottigliezza e profondità, fanno di questo film un capolavoro senza tempo. La sua modernità risiede anche nella decisione di Vidor di filmare in gran parte in esterni e di dare ai suoi attori istruzioni per recitare con una naturalezza quasi improvvisata, allontanandosi dai manierismi teatrali tipici del muto. Fu una battaglia artistica contro la MGM, che vedeva con scetticismo un film così "deprimente" e privo di una risoluzione edificante; la produzione fu travagliata, con lo studio che impose diverse versioni del finale. Eppure, proprio da questa tensione tra visione autoriale e imposizioni produttive, Vidor seppe estrarre una verità ancora più cruda. La sua critica al materialismo, alla perdita di valori e all'alienazione dell'individuo nella società di massa rimane di straordinaria attualità, rendendo "La folla" un'opera che continua a interrogare e a commuovere lo spettatore contemporaneo. Il finale, in particolare, con quel sorriso ambiguo e quasi rassegnato di John e Mary nella sala cinematografica, rimane un quesito aperto, una dichiarazione che la felicità non è un raggiungimento ma forse un momento fugace di condivisione, un riso che è al contempo speranza e disperazione, salvezza e condanna. È un finale che rifugge facili catarsi, lasciando l'osservatore a riflettere sulla fragilità della condizione umana e sulla natura effimera della gioia in un mondo indifferente. Un film bello e struggente, un macigno gettato nello stagno della modernizzazione e del progresso impetuoso, la cui eco risuona ancora oggi nelle cronache di un'umanità che, pur con tutti i suoi "progressi", fatica ancora a trovare un senso di appartenenza e identità autentica.

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