La Grande Guerra
1959
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Regista
Una feroce e disincantata critica ad ogni forma di guerra attraverso il levigato occhio di Monicelli e le magistrali interpretazioni di Sordi e Gassman. Monicelli, il cui genio risiede nella capacità di distillare l'amara essenza della condizione umana attraverso la lente deformante, eppure così veritiera, della commedia, qui raggiunge vette inesplorate. Il suo sguardo, mai indulgente, riesce a cogliere la meschinità e la grandezza, la paura e l'imprevisto coraggio che convivono nell'animo dell'uomo comune, trasformando la tragedia in una farsa grottesca e, proprio per questo, più straziante. E a dare corpo a questa visione bifronte sono due giganti del nostro cinema: Alberto Sordi e Vittorio Gassman, la cui chimica sul set trascende la mera recitazione, elevandosi a simbolo di un'Italia divisa tra furbizia e spavalderia, ma unita nel destino.
La storia racconta le imprese di due amici che tentano in ogni modo di evitare la chiamata alle armi del 1916 per la Grande Guerra. Oreste Jacovacci, l'Alberto Sordi perennemente intento a destreggiarsi tra miseria e furbizia spicciola, un romano dalla parlata strascicata e dalla morale elastica, e Giovanni Busacca, il milanese spocchioso e vanesio di Vittorio Gassman, che cerca di imporsi con un'eleganza artefatta e una supponenza borghese. La loro iniziale ritrosia, la loro astuta e disperata ricerca di escamotage per sfuggire al fronte, non è la codardia dell'eroe negativo, ma l'istinto primordiale di sopravvivenza di due "uomini qualunque" travolti da una macchina di morte che non comprendono e non desiderano. È l'archetipo dell'anti-eroe della commedia all'italiana che si manifesta in tutta la sua potenza.
Inutile dire che i due si ritroveranno a combattere sul fronte e consolideranno un’amicizia insperata. Un'amicizia nata non da affinità elettive, ma dalla necessità, dalla condivisione di una stessa, angosciante trincea di fango e terrore. La narrazione li segue attraverso le assurdità della vita militare, i sotterfugi per ottenere razioni extra, le brevi licenze che sanno di libertà effimera. È in questo contesto che l'iniziale diffidenza si trasforma, lento ma inesorabile, in una solidarietà ruvida, quasi inconsapevole, un legame forgiato nel crogiolo della paura e dell'umiliazione condivisa. Un'evoluzione che ricorda la forza delle relazioni umane che si forgiano nelle avversità, come accade in tanti racconti di guerra e sopravvivenza, ma qui filtrata dalla lente disincantata della commedia.
Troveranno tempo e modo di trascorrere un relativo periodo di pace nel villaggio di Tigliano, dove uno dei due riuscirà persino ad innamorarsi di una prostituta locale. Questo intermezzo, una sorta di oasi di normalità in un deserto di follia, è emblematico. Tigliano diventa un microcosmo di desiderio e illusione, un fugace rifugio in cui l'umanità può ancora respirare, amare, sperare. La relazione che sboccia, per quanto transitoria e condizionata dal contesto, è un barlume di vita autentica, un richiamo alla tenerezza che la guerra vorrebbe estirpare. È l'estremo tentativo dei personaggi di aggrapparsi a frammenti di esistenze pre-belliche, di illudersi che la violenza non sia totalizzante.
Finché una missione vitale non li strapperà a quella effimera quiete catapultandoli di nuovo nell’aspro infuriare della battaglia. Il ritorno alla trincea, alla brutalità, è tanto più impattante quanto più contrastato con la breve parentesi di pace. La missione finale, la loro ultima, disperata prova, non è dettata da eroismoné da ideali, ma da un destino cinico e beffardo che li risucchia in un vortice di violenza ineluttabile. Il film ci mostra una guerra senza retorica, dove gli atti di "coraggio" sono spesso il frutto del caso, della disperazione o di un senso del dovere così alieno da apparire quasi surreale. La scena finale, in particolare, resta impressa nella memoria collettiva per la sua potenza drammatica, un pugno nello stomaco che eleva il film ben oltre la semplice satira bellica.
Un meraviglioso equilibrio tra commedia e dramma, una mirabile convergenza tra ironia e messaggio antibellico. Questo è il cuore pulsante de La Grande Guerra. Monicelli, maestro della commedia all'italiana, dimostra qui come il riso amaro, la satira pungente, possano essere strumenti più efficaci della denuncia diretta per smantellare le narrazioni eroiche e retoriche. Il film non è solo un atto d'accusa contro la guerra, ma un affresco impietoso dell'assurdità del conflitto, della sua capacità di annichilire l'individuo e di rivelare la sua fragilità. L'umorismo non stempera il dramma, ma lo acuisce, lo rende più palpabile, quasi un meccanismo di difesa contro l'orrore insostenibile. È un approccio che si distingue nettamente dalle epopee belliche americane o dalle celebrazioni eroiche di altre cinematografie coeve; qui la guerra è sporca, casuale, mortale e profondamente, tragicamente, inutile.
Quegli uomini che soffrono in trincea siamo noi, Monicelli ci conduce per mano all’interno di una guerra per denunciarne gli orrori sorridendo, un’operazione narrativa che poteva riuscire soltanto a lui, specialmente nell’immediato dopoguerra italiano, quando le ferite non erano ancora del tutto rimarginate. Uscito nel 1959, in pieno boom economico, La Grande Guerra si inseriva in un contesto in cui l'Italia, sebbene proiettata verso il futuro, portava ancora addosso le cicatrici non solo della Seconda Guerra Mondiale, ma anche della revisione critica della Prima, la cosiddetta "inutile strage". Il film ebbe il coraggio di demitizzare l'epos risorgimentale e nazionalista legato al conflitto, mostrando soldati non come eroi impavidi ma come uomini comuni, spaventati, egoisti, eppure capaci, a volte, di lampi di inaspettata dignità. Questo approccio disincantato e privo di retorica fu rivoluzionario, anticipando temi che avrebbero trovato spazio solo in anni successivi in opere di altre cinematografie. La denuncia degli orrori della guerra, dunque, non passa attraverso scene di violenza esplicita, ma attraverso l'umiliazione quotidiana, la perdita di ogni individualità, la totale indifferenza della macchina militare.
Un film che riesce a fondere neorealismo e commedia all’italiana. La lezione neorealista, con la sua attenzione al vissuto della gente comune, alla quotidianità fatta di stenti e piccole gioie, e alla rappresentazione di un'Italia rurale e vera, si innesta qui perfettamente sulla struttura della commedia, intesa come specchio deformante della società. Il fango delle trincee, i volti stanchi dei soldati, i dialetti mescolati, la disillusione palpabile sono tutti elementi che richiamano il rigore documentaristico del neorealismo. Ma questa cruda realtà viene poi filtrata e rielaborata attraverso il sarcasmo, la caratterizzazione macchiettistica dei personaggi (seppur capaci di sorprendenti evoluzioni) e il ritmo vivace della commedia. Il risultato è un capolavoro senza tempo, una riflessione profonda sulla natura umana e sulla follia della guerra, che continua a risuonare con una potenza rara, dimostrando che, talvolta, la risata più amara è quella che rivela la verità più sconvolgente.
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