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La Moglie di Frankenstein

1935

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La moglie di Frankenstein (The Bride of Frankenstein), diretto da James Whale nel 1935, non è un semplice sequel, ma un'opera che trascende il suo predecessore, elevandosi a vette di lirismo e inquietudine raramente raggiunte nel genere. In un periodo in cui il cinema, e in particolare l'horror, iniziava a consolidare i propri stilemi, Whale, con una libertà creativa che rifletteva la sua idiosincratica visione artistica e la sua raffinata sensibilità teatrale, va ben oltre la formula del mero intrattenimento. Egli non si limita a riproporre, ma approfondisce con audacia quasi filosofica le tematiche già abbozzate nel primo film, esplorando con una sensibilità inaspettata e un macabro umorismo la solitudine esistenziale del mostro e il lato più abissale e incontrollato dell'ambizione scientifica. L'aggiunta di personaggi memorabili come il sinistro dottor Pretorius, interpretato magistralmente da Ernest Thesiger, un attore dalla fisicità eterea e dalla dizione perfetta, dona al film una patina di decadenza e cinismo che lo distingue. Pretorius non è solo un villain, ma un catalizzatore di dissoluzione, un vero e proprio demiurgo infernale che spinge il dottor Frankenstein verso un baratro morale, arricchendo la narrazione di sfumature gotiche e di una perversa, quasi mefistofelica, ironia. La presenza poi del collaudato Karloff, la cui performance è ormai un paradigma di come il corpo e la mimica possano esprimere un'anima tormentata anche senza il soccorso della parola, dona alla narrazione uno strisciante senso di terrore che si fonde con una palpabile e straziante commozione, trasformando il mostro da creatura da incubo in un tragico, e per certi versi romantico, antieroe.

La storia prende l’avvio dal finale del primo film, riallacciandosi con una naturalezza che smentisce la frettolosa gestazione del sequel. Il professor Frankenstein, tormentato dalla sua hybris e dalle conseguenze disastrose dei suoi esperimenti, intende chiudere definitivamente la sua esperienza di scienziato per trovare pace nel matrimonio con la sua amata Elizabeth. Ma è proprio in questo momento di apparente redenzione che irrompe la figura seducente e corrosiva di Pretorius. Quest'ultimo, con la sua collezione di omuncoli in miniatura – un macabro gabinetto delle meraviglie che evoca le ossessioni alchemiche del Rinascimento – mostra a Frankenstein i risultati dei suoi deliranti esperimenti sulla creazione della vita, tentando di indurlo a proseguire la sua opera. L'obiettivo, per Pretorius, è dare al mostro una compagna, un'eco distorta del desiderio di Adamo per Eva, ma qui intrisa di un'ambizione nichilista e quasi blasfema. Al rifiuto di Frankenstein, che tenta disperatamente di sfuggire al suo passato, Pretorius non esita a ricattarlo, orchestrando il rapimento di Elizabeth da parte del mostro. Questo evento innesca una fuga forsennata, un'odissea di terrore e disperazione che trascina il mostro attraverso boschi cupi e villaggi ostili, inseguiti da una folla ignorante e assetata di vendetta. Questo percorso attraverso un mondo che rifiuta la diversità e l'ignoto rappresenta non solo una metafora evidente della condizione di emarginazione e solitudine che accomuna in maniera straziante sia il mostro che la sua futura, seppur riluttante, sposa, ma anche un commentario amaro sulla natura umana e sulla sua incapacità di confrontarsi con ciò che esula dalla norma. Il mostro, nel suo tragico vagare, sperimenta il rifiuto sistematico, ma paradossalmente impara anche a comunicare, a esprimere un desiderio profondo di connessione, rendendo il suo isolamento ancora più lancinante.

Un’opera visivamente straordinaria, il film si avvale di una fotografia espressionista che, attraverso l'uso magistrale di luci e ombre, crea un'atmosfera gotica e onirica di rara intensità. Le inquadrature distorte, le ombre allungate che danzano sulle pareti dei laboratori e dei mausolei, e i primi piani carichi di pathos rivelano una chiara influenza del cinema tedesco degli anni '20, evocando capolavori come Il gabinetto del Dottor Caligari e Nosferatu. Le scenografie di Kenneth Macgowan non sono semplici fondali, ma veri e propri personaggi muti, architetture imponenti e dettagliate che amplificano il senso di claustrofobia e grandiosità macabra, dalle cripte umide ai laboratori alchemici traboccanti di alambicchi e bobine di Tesla. Il trucco di Jack Pierce, poi, è pura iconografia: se il mostro di Karloff è un'opera d'arte di protesi e cicatrici, la sua sposa, con quella capigliatura vaporosa e le cicatrici a zig-zag sul collo, è entrata nell'immaginario collettivo come simbolo stesso della bellezza mutata e della creazione perversa, un'icona destinata a perdurare ben oltre i confini del genere. Anche il sonoro, con i suoi sibili e i grugniti inquietanti, contribuisce a costruire un'esperienza immersiva e profondamente disturbante.

La regia di Whale riesce a bilanciare con maestria quasi alchemica horror puro, un umorismo nero graffiante e momenti di profonda, disarmante commozione, creando una sintesi fulminante tra dark comedy, horror gotico e narrazione drammatica. Questo non è solo un film spaventoso; è anche divertente, persino giocoso nella sua macabra ironia. Il camp consapevole di Whale, evidente in figure come Pretorius o la stessa gestazione della sposa, aggiunge uno strato di complessità che eleva il film al di là della semplice narrazione di genere, anticipando di decenni la post-modernità. È un approccio che riflette la sensibilità unica del regista, la sua capacità di infondere nella narrazione una vena di sovversione sottile, quasi un sorriso beffardo di fronte all'orrore.

Il film esplora con acutezza e senza moralismi i temi tipici della letteratura gotica ottocentesca: la morte come confine permeabile, la resurrezione come atto di emulazione divina, la creazione di vita artificiale come sfida ai limiti imposti dalla natura, e la potenziale punizione divina per l'arroganza umana. La figura del mostro, creato dall'uomo e poi rigettato senza pietà dalla società, incarna in modo sublime il tema dell'emarginazione, della solitudine ineludibile dell'Altro. Egli è il Prometeo moderno, un essere che porta in sé il fuoco della vita ma è condannato a un'esistenza di tormento e rifiuto, un paria il cui unico desiderio è trovare un'anima affine, un partner nell'esistenza. Mentre la figura della sposa, la cui breve apparizione è di un'intensità devastante, destinata ad un'esistenza tragica e a un rifiuto altrettanto lacerante, rappresenta la fragilità della bellezza contaminata e l'innocenza brutalmente violata dalla creazione innaturale. La sua reazione terrorizzata al mostro, quel grido acuto e primordiale, è il culmine della tragedia, il rifiuto definitivo che infrange ogni speranza di unione e comprensione, condannando entrambi a un'esistenza impossibile.

La moglie di Frankenstein non è dunque solo un classico dell'horror, ma un film che riflette in modo sorprendentemente contemporaneo sulle paure e le contraddizioni dell'uomo moderno: la sua insaziabile sete di conoscenza, l'incontrollabile spinta al progresso, e il pericolo intrinseco nell'oltrepassare i limiti etici e naturali. In un'epoca di rapidi avanzamenti scientifici e di crescenti ansie sociali (non ultima la Grande Depressione che acuiva il senso di precarietà e la paura del "diverso"), il film di Whale si erge come un monito, una parabola sulla responsabilità creativa e sulle conseguenze dell'abuso di potere. È un'opera che, pur avvolta nelle nebbie del gotico, risuona con una potenza quasi profetica, interrogando la natura stessa dell'umanità e la sua capacità (o incapacità) di accettare e amare ciò che è diverso, persino ciò che essa stessa ha generato. Un capolavoro stratificato, che invita a una rilettura continua, rivelando sempre nuove sfumature tra il terrore e la pietà.

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