La morte del signor Lazarescu
2005
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Regista
Un nome può essere un presagio, una mappa, un destino. Dante Remus Lăzărescu. Un nome che evoca la fondazione mitica di una civiltà e il suo più grande poeta dell'oltretomba. Il regista Cristi Puiu, mente architettonica del Nuovo Cinema Romeno, non sceglie a caso. In questo nome è racchiusa l'epica al contrario che stiamo per testimoniare: non la fondazione di una città, ma la dissoluzione di un uomo; non un viaggio visionario attraverso i regni dell'aldilà, ma una discesa terribilmente terrena nei gironi di un inferno burocratico e sanitario. "La morte del signor Lăzărescu" è una Divina Commedia ospedaliera, un'odissea in ambulanza attraverso la notte di Bucarest che si rivela come una delle più spietate e lucide autopsie cinematografiche della condizione umana.
Il signor Lăzărescu è un vedovo di 63 anni che vive solo con i suoi gatti in un modesto appartamento. Si sente male. Un mal di testa persistente, dolori allo stomaco. Inizia così un calvario che si dipana in tempo quasi reale per due ore e mezza, un piano sequenza esistenziale che ci incolla alla barella di quest'uomo mentre viene sballottato da un ospedale all'altro. Puiu adotta uno stile di un verismo quasi documentaristico, quasi da cinema-sorveglianza. La sua macchina da presa a mano, nervosa e onnipresente, non è un vezzo stilistico à la Dogma 95; è uno strumento morale. Ci nega la distanza di sicurezza, ci rende testimoni scomodi, quasi complici, del lento e metodico smantellamento di una persona. Non c'è colonna sonora a manipolare le nostre emozioni, solo il lamento delle sirene, il bip delle apparecchiature mediche, e un fiume ininterrotto di dialoghi sovrapposti, triviali, esasperati.
L'analogia dantesca è la chiave di volta per decifrare l'opera. Lăzărescu è il nostro Dante, un'anima smarrita nella selva oscura della malattia e della vecchiaia. La sua guida in questo purgatorio mobile è Mioara (una straordinaria Luminița Gheorghiu), l'infermiera dell'ambulanza. Non è una Beatrice trasfigurata, ma un Virgilio molto più prosaico e terreno: stanca, cinica, a tratti brusca, ma l'unica a conservare un barlume di ostinata compassione. È lei a combattere, a discutere, a insistere, a ricordare ai medici che quello sulla barella non è un "caso clinico" o "il vecchio ubriaco", ma il "signor Lăzărescu". Ogni ospedale che rifiuta il ricovero è un nuovo girone, popolato da una schiera di dottori indifferenti, infermieri oberati di lavoro e burocrati assopiti nel loro piccolo regno di potere. I loro peccati non sono quelli capitali della tradizione, ma quelli, forse più spaventosi, della modernità: l'apatia, l'esaurimento professionale, la disumanizzazione procedurale.
Il film, però, trascende la semplice critica al sistema sanitario rumeno post-Ceaușescu, pur essendone un ritratto impietoso. Diventa un'esplorazione kafkiana dell'individuo contro il Sistema. Come Josef K. ne "Il Processo", Lăzărescu è accusato di un crimine che non conosce – la sua stessa infermità, la sua fragilità, la sua stessa esistenza – e viene giudicato da un tribunale invisibile le cui leggi sono incomprensibili e arbitrarie. La sua progressiva perdita di lucidità e di parola è la metafora perfetta della sua spersonalizzazione. All'inizio è un uomo, con una storia, dei vicini ficcanaso, delle lamentele. Alla fine, dopo ore di attese, diagnosi affrettate e umiliazioni, è ridotto a un corpo quasi inerte, un oggetto da operare, un fascicolo da chiudere. La sua identità viene erosa domanda dopo domanda, modulo dopo modulo. "Ha bevuto?", gli chiedono tutti, con un pregiudizio che diventa sentenza prima ancora della diagnosi. L'ulcera perforata che lo sta uccidendo è meno importante dell'alito che odora di alcol.
La scrittura di Puiu e Răzvan Rădulescu è un capolavoro di naturalismo intriso di un umorismo nero, nerissimo, che affonda le sue radici nel teatro dell'assurdo di Ionesco. Le conversazioni tra i medici non vertono sulla salute del paziente, ma su beghe personali, pettegolezzi, problemi di carriera. In una scena memorabile, due dottori discutono animatamente su un acquisto online mentre Lăzărescu geme di dolore a pochi metri di distanza. Questa non è crudeltà attiva, ma qualcosa di forse peggiore: un'indifferenza totale, la banalità del male applicata al pronto soccorso. L'orrore non nasce da un evento eccezionale, ma dalla normalità di un sistema collassato su se stesso, dove l'umanità è diventata un lusso che nessuno può più permettersi.
Questo film è il manifesto fondativo di quella che sarebbe stata celebrata come la Romanian New Wave, un movimento caratterizzato da lunghi piani sequenza, un'estetica austera e un'attenzione viscerale alle crepe morali della società contemporanea. In un certo senso, film come questo e il successivo "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni" di Cristian Mungiu sono una reazione diretta a decenni di cinema di propaganda del regime comunista. Alla finzione di stato, Puiu e i suoi colleghi oppongono una verità brutale, scomoda, priva di abbellimenti. La telecamera non mente, non giudica, si limita a osservare. E ciò che osserva è una nazione ancora intrappolata tra le macerie del suo passato, i cui cittadini hanno imparato a sopravvivere sviluppando un guscio di cinismo e disillusione.
Il viaggio di Lăzărescu può essere letto anche come una parabola più ampia sulla mortalità stessa. È una demistificazione radicale della "bella morte". Morire, qui, non è un atto tragico o eroico. È un processo burocratico, una seccatura logistica. È essere spogliati, letteralmente e metaforicamente, di tutto ciò che ci definisce, fino a rimanere solo carne dolente su un tavolo operatorio, sotto luci al neon che cancellano ogni ombra e ogni mistero. L'ultima parte del film, quasi muta, è di una potenza devastante. Lăzărescu non può più parlare. I medici parlano di lui, sopra di lui, come se non ci fosse. Gli rasano la testa, preparandolo per un intervento chirurgico che forse non servirà a nulla. Il suo ultimo sguardo in macchina, o forse nel vuoto, non chiede più aiuto. È lo sguardo di chi si è arreso, di chi ha completato la sua discesa.
Confrontare "La morte del signor Lăzărescu" con il cinema di Frederick Wiseman per l'approccio documentaristico alle istituzioni o con quello dei fratelli Dardenne per l'intimità pedinante della cinepresa è corretto, ma riduttivo. Il film di Puiu è un'opera a sé stante, un unicum che riesce a essere allo stesso tempo un'analisi sociologica precisa e un'allegoria universale sulla solitudine, la vecchiaia e la fragilità della dignità umana. È un film che fa male, che sfianca, che lascia un sapore amaro in bocca. Ma è un malessere necessario, l'effetto collaterale di un'opera d'arte che non si limita a intrattenere, ma costringe a guardare dove non vorremmo, a confrontarci con la terrificante possibilità che, in una notte qualunque, il signor Lăzărescu potremmo essere noi. E forse non ci sarà nessuna Mioara a tenerci la mano.
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