La Notte dei Morti Viventi
1968
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Regista
Uno dei capisaldi del genere horror, un’opera che trascende la mera categorizzazione per assurgere a vera e propria pietra miliare dell'immaginario collettivo. Firmato da George A. Romero in un bianco e nero spettrale ma anche conturbante nei suoi raffinati risvolti estetici, "La Notte dei Morti Viventi" inaugura un filone a cui torme di sceneggiatori e registi attingeranno a piene mani, senza mai raggiungere le atmosfere macabre e opprimenti dell’archetipo originario. La scelta del monocromo, lungi dall'essere una mera necessità di budget – sebbene indubbiamente giovasse alle esigue finanze della Image Ten Productions – si rivela una decisione artistica di inestimabile valore. Essa conferisce alla pellicola una cruda autenticità quasi documentaristica, un realismo iperbolico che amplifica l’orrore rendendolo tangibile, palpabile. Non si tratta più del terrore gotico celato nell'ombra di castelli remoti, bensì di un’angoscia che emerge dalla familiarità domestica, dalla violazione del quotidiano. Ogni ombra è più densa, ogni macchia di sangue (o ciò che essa evoca) più terrificante nell'assenza di colore, evocando le suggestioni espressioniste del cinema tedesco o le cupe atmosfere del film noir americano, ma declinate in una chiave di spaventosa modernità.
Sebbene non sia certo il primo film a tema zombie – ricordiamo che il primo in assoluto fu “White Zombie” di Victor Halperin del 1932, un'opera pregna di folklore haitiano e suggestioni voodoo, dove lo zombie era una creatura sottomessa alla volontà di un padrone – si può tuttavia affermare che con quest’opera lo zombie movie acquista dignità di sotto-genere, dievenendo una specifica branca del genere Horror. Romero destituisce lo zombie dalla sua schiavitù esotica, liberandolo per le strade e rendendolo una minaccia autonoma, un’incarnazione della morte stessa che cammina e contagia. Questo nuovo archetipo avrà svariati interpreti nel corso degli anni a venire: da Ed Wood con le sue eccentricità, a maestri del brivido italiani come Mario Bava e Lucio Fulci che ne amplificheranno gli aspetti grotteschi e viscerali, fino a visionari come Wes Craven, Sam Raimi, John Carpenter, Peter Jackson, Roger Corman, Danny Boyle, Zack Snyder, Tobe Hooper. Tutti, a modo loro, hanno omaggiato o reinterpretato il lascito di Romero, ma nessuno ha replicato l’impatto primordiale e la sconcertante immediatezza del suo debutto.
La trama, nella sua disarmante semplicità, è basata sulla "resurrezione" dei morti in forma quasi ferina. Le creature vagano per il mondo in cerca di carne umana con la quale placare la propria fame insaziabile, una fame non solo fisica ma quasi metafisica, un inesorabile richiamo al ritorno alla polvere, all'entropia. Ogni loro morso genera un contagio che trasforma chi lo subisce in zombie, propagando l'orrore con la rapidità di una pandemia, un concetto che risuonerà con inquietante preveggenza nei decenni a venire. Alcuni sopravvissuti si riuniranno in una casa di campagna isolata, trasformata in una disperata fortezza per resistere alle fameliche orde. Questo assedio, apparentemente unidirezionale, si rivela presto una trappola a doppio taglio.
All’interno della casa, infatti, si stabilirà un microcosmo di relazioni umane che, sotto la pressione di una minaccia esistenziale incomprensibile, spesso sfoceranno in aperti contrasti, in una disintegrazione del tessuto sociale che è forse l'aspetto più terrificante del film. L'uomo, in Romero, si rivela il più pericoloso dei predatori per il suo simile, non per istinto ma per la meschinità, l'egoismo e l'incapacità di cooperare. Il protagonista Ben, interpretato con sobria dignità da Duane Jones, è una figura carismatica e razionale, un afroamericano in un’America segnata dalle tensioni razziali. La sua leadership viene costantemente messa in discussione e minata dall’ottusa belligeranza di Harry Cooper, archetipo dell'uomo bianco patriarcale che rifiuta di cedere il controllo, simboleggiando le fratture profonde della società americana di fine anni '60. Il film, pur involontariamente (data la scelta di Jones fu un puro caso di casting di un attore bravo e disponibile), divenne un potente commentario sulle relazioni razziali e sulla disintegrazione dell'autorità e della fiducia. Questa critica sociale velata, ma incisiva, eleva "La Notte dei Morti Viventi" al di là del semplice film horror, trasformandolo in una parabola sui fallimenti dell'umanità di fronte all'apocalisse, un'allegoria del caos della Guerra del Vietnam e delle rivolte civili che stavano dilaniando la nazione.
Celebri moltissime scene che fanno parte dell’immaginario terrificante di ognuno di noi, incise a fuoco nella memoria collettiva. La scena in cui i morti viventi infilano decine di braccia pencolanti attraverso i varchi di una porta sbarrata, un'immagine di vulnerabilità e violazione insostenibile, simboleggia l'inevitabile collasso delle barriere di sicurezza, sia fisiche che psicologiche. O la scena terribile in cui una baby zombie si nutre solertemente della propria madre, un atto che rovescia ogni tabù fondante della civiltà – l'amore materno, la protezione dell'infanzia – trasformando l'innocenza in abiezione, l'affetto più puro in fame cannibale. Questo momento di puro orrore nihilistico, girato con una compostezza quasi clinica, è un pugno nello stomaco che annuncia la fine di ogni speranza e l'avvento di un'era dove le regole morali non hanno più alcun significato. E infine, il finale, brutale e spietato nella sua ironia tragica, che sottolinea l'assurdità del destino e la futilità di ogni sforzo umano di fronte a una minaccia indifferente e inarrestabile. Romero non offre catarsi, ma solo l'eco di un grido inascoltato, lasciando lo spettatore con un senso di profonda desolazione e la consapevolezza che, forse, i mostri più grandi risiedono dentro di noi.
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