La sala professori
2023
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Regista
In un laboratorio sigillato ermeticamente, un sistema in perfetto equilibrio viene perturbato da un singolo, minuscolo gesto. L'intenzione è nobile: isolare una variabile impazzita, ripristinare l'ordine. Ma l'atto stesso di osservare il sistema ne altera irrimediabilmente la natura, innescando una reazione a catena che conduce al collasso. Questo non è l'incipit di un racconto di Philip K. Dick, ma l'anima pulsante de La sala professori (Das Lehrerzimmer) di İlker Çatak, un film che trascende il thriller scolastico per farsi trattato di sociologia applicata, un agghiacciante esperimento sulla fragilità del patto sociale. La scuola media tedesca del film è il nostro acceleratore di particelle, un microcosmo dove le collisioni tra etica, paranoia e burocrazia generano un'energia oscura che tutto consuma.
L'ordigno a orologeria è innescato da Carla Nowak (un'interpretazione magistrale di Leonie Benesch, il cui volto diventa una mappa della tensione psicologica), un'insegnante di matematica e ginnastica giovane, idealista, quasi un algoritmo di correttezza e buone intenzioni. Quando una serie di piccoli furti turba la quiete dell'istituto, la tolleranza zero della dirigenza scolastica si traduce in metodi inquisitori che Carla disapprova. Decisa a risolvere la questione con razionalità e discrezione, compie un gesto fatale: lascia il suo portatile acceso con la telecamera in funzione nella sala professori. La trappola scatta, il video incastra una figura insospettabile, la segretaria e madre del suo studente più brillante, Oskar. Da questo singolo fotogramma, da questa "prova" ambigua e ottenuta illecitamente, si propaga un'onda d'urto che frantuma ogni certezza.
Se si dovesse trovare un nume tutelare per l'opera di Çatak, non sarebbe tanto Alfred Hitchcock, pur con tutta la suspense che permea la pellicola, quanto Franz Kafka. La scuola de La sala professori è un moderno Castello, una macchina burocratica dotata di una sua logica impenetrabile e autoreferenziale. Carla Nowak, come l'agrimensore K., crede di poter navigare il sistema, di poterne comprendere e persino correggere le regole. Ma ogni sua azione, per quanto razionale e ben motivata, la impantana ulteriormente in un pantano di procedure assurde, riunioni kafkiane e sospetti incrociati. La presunzione di innocenza si dissolve in un istante, sostituita da un processo sommario in cui l'accusa, una volta formulata, diventa una verità inscalfibile. Il film è una sublime dimostrazione di come le istituzioni, create per proteggere l'individuo, possano trasformarsi in meccanismi ciechi che lo stritolano, dove la procedura prevale sulla giustizia e la forma sulla sostanza.
Il regista tedesco di origini turche, con una precisione chirurgica che ricorda il Michael Haneke de Il nastro bianco nel sezionare le radici della violenza collettiva, costruisce un dispositivo panottico impeccabile. La scelta del formato 4:3 non è un vezzo stilistico, ma una dichiarazione d'intenti. L'inquadratura stretta, quasi soffocante, intrappola i personaggi e lo spettatore nei corridoi labirintici della scuola, nelle aule vetrate, nella claustrofobica sala professori che dà il titolo al film. Questo spazio, che dovrebbe essere un santuario di collegialità, si trasforma in un'arena di sguardi sospettosi, un tribunale informale dove tutti sono al contempo giudici e imputati. Çatak applica alla lettera le teorie di Michel Foucault: la sorveglianza non è più solo verticale (dal preside agli insegnanti), ma diventa orizzontale, un reticolo di controllo reciproco che genera conformismo e diffidenza. E, in un'inversione di potere terrificante, diventa anche ascendente, quando gli studenti, attraverso il loro giornale scolastico, si ergono a inquisitori, brandendo l'arma del giornalismo scandalistico con un'ingenuità che è essa stessa una forma di crudeltà.
L'architettura narrativa del film evoca irresistibilmente quella del cinema di Asghar Farhadi. Come in Una separazione, un piccolo incidente morale – una menzogna, un'omissione, un'accusa – si espande come una macchia d'olio, contaminando ogni relazione e costringendo ogni personaggio a scegliere da che parte stare, spesso sulla base di informazioni incomplete o distorte. Il punto non è più scoprire la verità oggettiva – chi ha rubato cosa –, ma gestire le conseguenze catastrofiche della sua ricerca. La sala professori è un film profondamente post-moderno, un thriller per l'era della post-verità, dove la percezione della colpa diventa più potente della colpa stessa e un'immagine sgranata di una camicetta a fiori può distruggere una vita. La macchina da presa di Çatak, incollata a Carla, ci nega una visione onnisciente; viviamo il suo stesso smarrimento, la sua stessa disperata ricerca di un appiglio morale in un mondo che sembra aver perso ogni coordinata etica.
La colonna sonora, composta da Marvin Miller, merita una menzione a parte. Non è un commento musicale, ma un'estensione del sistema nervoso di Carla. I pizzicati secchi, le percussioni tese e dissonanti non accompagnano l'azione, ma la punteggiano come spasmi improvvisi, come il battito cardiaco accelerato di chi si sente braccato. È un paesaggio sonoro che lavora a livello subliminale, trasformando una normale giornata scolastica in un thriller psicologico di insostenibile tensione. Un altro elemento simbolico ricorrente è il cubo di Rubik, che il giovane Oskar risolve con velocità prodigiosa. All'inizio sembra un semplice segno della sua intelligenza, ma col progredire del film diventa una metafora crudele: mentre Oskar può ricomporre l'ordine cromatico del suo rompicapo, Carla si trova di fronte a un problema umano e sociale che non ha soluzione, un cubo di Rubik impazzito le cui facce cambiano colore a ogni tentativo di sistemarle.
Il film, pur essendo radicato nel contesto specifico del sistema educativo tedesco, con le sue rigide procedure e il suo multiculturalismo a volte teso, assurge a parabola universale delle nostre società contemporanee. La scuola diventa lo specchio di un mondo più vasto, lacerato da polarizzazioni insanabili, dove il dialogo è sostituito dall'accusa e la complessità ridotta a slogan. La ribellione di Oskar, il suo ostinato silenzio, il suo rifiuto di collaborare con un sistema che ha ingiustamente condannato sua madre, non è il capriccio di un bambino, ma un atto di resistenza passiva quasi gandhiano, o forse l'espressione di un nichilismo assoluto. È il "preferirei di no" di un Bartleby pre-adolescente di fronte all'assurdità del potere.
Il finale è un capolavoro di ambiguità e potenza visiva, un pugno nello stomaco che lascia senza fiato. Oskar, barricato in classe, viene prelevato di peso e portato via sulla sua sedia, rigido, ieratico, quasi un re detronizzato o un martire trasportato verso il suo calvario. È un'immagine che brucia la retina, la rappresentazione plastica del fallimento totale del sistema educativo e dialogico. Il problema non è stato risolto, è stato semplicemente rimosso fisicamente dall'inquadratura. L'ordine è stato ripristinato con la forza, non con la giustizia, lasciando dietro di sé un silenzio carico di macerie morali. Çatak ci nega la catarsi, la facile risoluzione. Ci lascia soli, come Carla, a contemplare il caos che un singolo, benintenzionato gesto ha scatenato, costringendoci a interrogarci su dove finisca l'idealismo e inizi una pericolosa forma di hybris. In un'epoca che reclama a gran voce eroi e colpevoli, La sala professori ha il coraggio intellettuale di mostrarci che, a volte, l'inferno non è altro che un labirinto lastricato di buone intenzioni. Un'opera essenziale, tesa come la corda di un violino sul punto di spezzarsi, e un candidato indiscutibile per il canone del cinema del XXI secolo.
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