La scelta di Sophie
1982
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Regista
Certi film non si limitano a raccontare una storia; scavano una trincea nella coscienza dello spettatore, un solco permanente che altera la topografia della nostra memoria cinematografica. "La scelta di Sophie" di Alan J. Pakula è uno di questi film-evento, un'opera che trascende il melodramma per farsi sismografo dell'anima, registrando le scosse di assestamento di una psiche frantumata dalla Storia. Visto oggi, nel 1982 come adesso, il film si erge come un monumento funebre non tanto all'Olocausto in sé – un orrore che Pakula, con intelligenza quasi reverenziale, lascia per lo più fuori campo – quanto alla sua eredità spettrale, all'eco infinita del trauma che infesta il presente come un miasma invisibile e letale.
La struttura narrativa, mutuata con fedeltà quasi filologica dal romanzo di William Styron, è di una brillantezza diabolica. Ci viene offerto un punto d'accesso apparentemente sicuro, quasi da commedia di formazione: il giovane Stingo (un Peter MacNicol perfettamente calibrato nella sua ingenuità del Sud), aspirante scrittore che nell'estate del 1947 si trasferisce a Brooklyn per redigere il suo capolavoro. Il suo è lo sguardo del neofita, l'orecchio del confessore involontario. È il nostro Nick Carraway, approdato non a West Egg ma in una pensione rosa confetto, che si ritrova a osservare la coppia tanto affascinante quanto catastrofica che abita al piano di sopra: Nathan Landau (un Kevin Kline vulcanico, al suo esordio cinematografico) e la sua compagna, Sophie Zawistowska (Meryl Streep). Attraverso gli occhi vergini di Stingo, la loro vita appare come un'opera bohémien, un valzer di passione, cultura, champagne e improvvise, terrificanti crepe di violenza paranoica. Pakula culla lo spettatore in questa illusione, in questo idillio estivo fotografato da Néstor Almendros con la luce dorata e polverosa di un quadro di Edward Hopper, se Hopper avesse dipinto la speranza invece della solitudine.
Ma è una trappola estetica. Quella casa rosa è un sepolcro imbiancato. La vivacità di Brooklyn non è che un velo sottile steso su un abisso. La narrazione di Stingo agisce come un filtro, un diaframma che ci protegge dall'incandescenza del nucleo della storia, per poi strapparcelo di dosso nel momento di massima vulnerabilità. È una scelta meta-narrativa potente: il film non ci dice "questa è la storia di Sophie", ma piuttosto "questa è la storia di come Stingo ha ascoltato la storia di Sophie". Questo scarto, questa mediazione, rende la testimonianza ancora più sacra e insostenibile. Noi, come Stingo, siamo voyeur di un dolore che non possiamo comprendere, ascoltatori di una confessione che ci lascerà muti.
E al centro di questo buco nero emotivo, c'è la performance di Meryl Streep. Parlarne in termini di "grande interpretazione" è riduttivo, quasi offensivo. Quello che la Streep compie è un atto di trasmutazione alchemica, un'incarnazione che sfida le fondamenta stesse della recitazione. Non imita un accento; reinventa la fonetica del dolore. Il suo inglese incerto, cesellato sulle asprezze del polacco e del tedesco, non è un vezzo tecnico, ma il linguaggio stesso di un'identità dislocata, di un'anima che non può più abitare comodamente in nessuna lingua perché la sua lingua madre è stata contaminata dall'orrore. Quando, nei flashback, la sentiamo parlare un tedesco fluente e un polacco impeccabile (lingue che l'attrice ha studiato ossessivamente per il ruolo, arrivando a scrivere di suo pugno il monologo in polacco, ritenendo quello della sceneggiatura non abbastanza autentico), percepiamo la donna che era, la musicista colta di Cracovia, e la voragine che la separa dalla creatura tremante di Brooklyn. La sua fisicità è un poema di sofferenza: la postura leggermente curva, come se portasse un peso invisibile; lo sguardo che alterna lampi di una gioia quasi infantile a un vuoto abissale, un'afasia morale che la congela. È un kintsugi esistenziale: una creatura meravigliosamente ricomposta le cui cicatrici, le linee di frattura dorate, sono la parte più visibile e preziosa della sua essenza.
Il film opera su un dualismo visivo e tonale che è la sua vera forza. Pakula, maestro del thriller paranoico degli anni '70 ("Tutti gli uomini del presidente", "Perché un assassinio"), applica qui la stessa grammatica della suspense non a una cospirazione politica, ma a un mistero psicologico. Il mistero è Sophie. Chi è veramente? Qual è il segreto che il numero tatuato sul suo avambraccio nasconde? I flashback che squarciano l'estate del '47 non sono semplici rievocazioni; sono intrusioni violente, frammenti di un'altra realtà estetica. La fotografia di Almendros vira dal caldo pastello di Brooklyn a un grigio-azzurro desaturato, quasi monocromatico, per le scene del campo. Non è il colore della memoria, ma il colore della morte emotiva. È come se un film di Douglas Sirk venisse improvvisamente squarciato da sequenze di "Notte e nebbia" di Alain Resnais. L'orrore non è mostrato nella sua pornografica totalità, ma distillato in dettagli insopportabili: un paio di stivali, il fumo di un camino, un ufficiale nazista che parla di musica.
E questo ci porta alla "scelta" del titolo. Un momento cinematografico che è entrato nell'immaginario collettivo come sinonimo di dilemma morale impossibile. Ma la genialità del film e del romanzo sta nel rivelare che quella di Sophie non è mai stata una scelta. È la negazione stessa del concetto di scelta, un atto di crudeltà assoluta che usa il libero arbitrio come strumento di tortura. È un momento che ci proietta nella "zona grigia" teorizzata da Primo Levi, quella terra di nessuno morale in cui le categorie di vittima e carnefice si liquefano sotto una pressione disumana. Pakula filma la scena con una distanza agghiacciante, senza commenti musicali, lasciando che il silenzio e il ronzio della stazione ferroviaria amplifichino l'enormità di ciò che sta accadendo. La vera tragedia non è solo l'atto in sé, ma la consapevolezza di Sophie di essere sopravvissuta non per caso o per forza, ma a causa di esso. La sua colpa non è quella del sopravvissuto, ma quella del partecipe forzato al male. Questo la rende, ai suoi stessi occhi, indegna di quella vita che le è stata "concessa".
Inserito nel suo contesto del 1982, "La scelta di Sophie" arrivò in un momento in cui Hollywood stava iniziando a confrontarsi con il trauma del Vietnam, esplorando le cicatrici psicologiche dei reduci. In questo senso, il film di Pakula, pur ambientato decenni prima, si sintonizzò perfettamente su quel zeitgeist. Funzionò come un'allegoria universale sul disturbo da stress post-traumatico, dimostrando come le ferite della Storia non si rimarginino mai del tutto, ma continuino a suppurare sotto la superficie del presente. La relazione folle e autodistruttiva tra Sophie e Nathan – lui stesso un uomo spezzato, afflitto da una malattia mentale che lo rende specchio deformante della fragilità di lei – non è una storia d'amore, ma una co-dipendenza tra fantasmi, un patto suicida tra due persone che cercano di urlare più forte dei propri demoni.
"La scelta di Sophie" non è un film facile. Non offre catarsi, né redenzione. Il finale, con Stingo che si accoccola tra i corpi senza vita dei suoi amici, non è una conclusione ma un'eredità. Ha ascoltato la storia, e ora è suo compito portarne il peso. Il film ci investe della stessa, terribile responsabilità. È un'opera che, come le più grandi tragedie greche, ci costringe a guardare nell'abisso non per trovarvi risposte, ma per riconoscere la sua esistenza e la sua terrificante prossimità. Non si esce dalla visione di questo film, ci si porta dietro i suoi spettri. Per sempre.
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