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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La sorgente del fiume

2004

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Un cadavere finto galleggia sulle acque limacciose del fiume Tamsui, a Taipei. È una comparsa, un corpo inerte per un film che si sta girando, quello di Ann Hui. Quel corpo appartiene a Hsiao-kang (Lee Kang-sheng, l'attore feticcio, l'alter ego, il corpo-martire del cinema di Tsai Ming-liang), che di lì a poco svilupperà un dolore lancinante e inspiegabile al collo, una sorta di torcicollo perenne che lo costringerà a una postura innaturale, la testa piegata di lato come un fiore spezzato. In questa genesi, che fonde finzione e un aneddoto di produzione (pare che Lee si sia ammalato davvero dopo quella scena), risiede l'intera chiave di lettura de "La sorgente del fiume": un cinema dove il malessere fisico è la somatizzazione di un'agonia spirituale, dove il corpo diventa la mappa geografica di una desolazione interiore che ha contagiato ogni anfratto dell'esistenza.

Il dolore di Hsiao-kang è la malattia dell'intera civiltà urbana tardo-capitalista. Il suo collo rigido, che impedisce uno sguardo frontale, diretto, è la metafora perfetta del collasso della comunicazione. Non può più guardare dritto negli occhi suo padre, né sua madre, né il mondo. La sua è una visione laterale, distorta, sofferente, l'unica possibile in una famiglia che è un arcipelago di solitudini galleggianti nello stesso, claustrofobico appartamento. Tsai Ming-liang orchestra una sinfonia del silenzio, dove i dialoghi sono scarni, quasi superflui, sostituiti da una grammatica dei gesti mancati, degli sguardi evitati, dei corpi che si sfiorano senza mai toccarsi davvero. L'appartamento familiare non è un nido, ma una cella d'isolamento tripartita. Il padre (Tien Miao) cerca scampoli di contatto umano nel buio umido delle saune gay, in un cruising disperato che è più ricerca di calore che di piacere. La madre (Lu Yi-ching) intrattiene una relazione apatica e meccanica con un venditore di videocassette pornografiche, consumando sesso come si consuma un pasto precotto. Hsiao-kang, prigioniero del suo corpo dolente, vaga per la città come un fantasma, in un limbo di dolore e desiderio inespresso.

Se il cinema di Ozu ha raccontato la lenta, dignitosa dissoluzione della famiglia tradizionale giapponese attraverso riti e geometrie spaziali precise, Tsai ne mostra l'implosione terminale in un contesto taiwanese in piena e caotica modernizzazione. L'architettura qui non è più un ordine rassicurante, ma una prigione di cemento e umidità. L'acqua, elemento ossessivo e polisemico in tutta la filmografia di Tsai, in "La sorgente del fiume" raggiunge il suo acme simbolico. Non è l'acqua purificatrice della tradizione o l'elemento romantico della natura. È un'acqua stagnante, inquinata, che invade. È l'acqua del fiume dove galleggiano i cadaveri, l'acqua che piove incessantemente dal soffitto dell'appartamento, raccolta in secchi con un gocciolio che diventa la colonna sonora della loro esistenza. È l'acqua torbida delle saune, teatro di incontri anonimi e fugaci. L'acqua di Tsai è il liquido amniotico di un mondo malato, un'infiltrazione costante che erode le fondamenta delle relazioni e delle identità, proprio come fa con le pareti dell'edificio.

Il cinema di Tsai Ming-liang è erede diretto della modernità più radicale, quella che da Antonioni arriva a Chantal Akerman. C'è l'incomunicabilità antonioniana, ma spogliata di ogni residuo fascino borghese e calata in una quotidianità più scabra, quasi documentaristica. C'è il tempo dilatato, la "durata" della Akerman di Jeanne Dielman, dove l'attesa e la ripetizione di gesti vuoti rivelano l'orrore sottostante. Eppure, c'è qualcosa di unicamente suo, una sorta di umorismo nero, quasi chapliniano o keatoniano, che affiora nell'assurdità delle situazioni. La serie di tentativi per curare il collo di Hsiao-kang – agopuntori, massaggiatori, persino un esorcista – diventa una comica e tragica via crucis che espone l'impotenza della scienza, della tradizione e della fede di fronte a un male che non è del corpo, ma dell'anima.

Il film è un saggio spietato sull'anonimato metropolitano di Taipei alla fine del millennio, una città che ha sacrificato la sua anima sull'altare di un progresso che ha lasciato i suoi abitanti spiritualmente indigenti. In questo deserto di connessioni, il sesso diventa l'ultima, disperata forma di comunicazione, un linguaggio primordiale praticato nell'oscurità per paura della luce, per paura del volto dell'altro. La sequenza nella sauna, un labirinto di vapori e penombre, è il culmine tragico del film e uno dei momenti più devastanti del cinema contemporaneo. In quel buio, dove i corpi sono solo sagome e il desiderio è cieco, padre e figlio si incontrano senza riconoscersi. È un incesto involontario, un Edipo Re consumato non in un regno mitologico ma nel ventre umido e infernale della metropoli. L'atto è interrotto dalla luce che si accende all'improvviso, e l'orrore della rivelazione non ha bisogno di parole. È un cortocircuito che fa deflagrare il già fragile equilibrio familiare, un punto di non ritorno che svela l'abisso che li separa.

"La sorgente del fiume" è un titolo di una perfidia sublime. Per tutto il film, i personaggi cercano la fonte del loro malessere – la sorgente del dolore al collo, la sorgente della perdita d'acqua, la sorgente della loro infelicità. Ma la ricerca è vana. Non esiste una singola fonte, un'unica causa da estirpare. Il male è sistemico, ambientale, è l'aria che respirano e l'acqua che bevono. Il fiume del titolo è quello della vita moderna, inquinato alla sorgente. Non c'è catarsi, non c'è guarigione. L'immagine finale, con il padre che, in un ultimo, goffo tentativo di cura, porta il figlio sulle spalle attraverso la città notturna, è una Pietà post-moderna e secolare. Un gesto di accudimento che arriva troppo tardi, un peso insopportabile per entrambi. Non è un'immagine di speranza, ma la constatazione di un fallimento condiviso. Tsai Ming-liang non offre risposte né consolazione. Ci costringe a guardare, con i suoi tempi lunghi e il suo sguardo inflessibile, il lento naufragio dei suoi personaggi, che è poi il nostro. È un'opera monumentale e intransigente, un capolavoro che non si limita a diagnosticare la malattia del nostro tempo, ma ce la inietta sottopelle, lasciandoci con un disagio che è la più alta forma di lucidità artistica.

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