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La Sottile Linea Rossa

1998

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Una voce interiore, in un lungo appassionante monologo accompagna la straziante avventura di un manipolo di soldati, grattando via dalle loro anime, dai più reconditi pensieri, l’emozione, la nostalgia, la paura della morte. Non è una semplice didascalia narrativa, ma un flusso di coscienza vibrante, una sorta di psalmodia laica che eleva la sofferenza individuale a un piano universale, interrogando il mistero dell'esistenza e la perversione insita nella violenza umana. Ogni sussurro, ogni interrogativo silente, si innesta in un arazzo sonoro e visivo che rifiuta la linearità del racconto bellico tradizionale per abbracciare la frammentazione e la pura sensazione.

Terence Malick torna al cinema dopo oltre vent’anni di assenza dai set e lo fa con un’opera monumentale. Questa lunga eclissi, seguita a capolavori come La Rabbia Giovane e I Giorni del Cielo, aveva alimentato un’attesa quasi mitica per il ritorno di un autore schivo e intransigente, la cui visione cinematografica trascende la semplice narrazione. La Sottile Linea Rossa non è solo un film; è un’esperienza di vita sia per chi vi ha recitato (molte star pur di apparire hanno accettato anche ruoli minori, a compenso quasi azzerato) sia per il suo creatore che ha impiegato quasi un decennio a portare a termine questo ciclopico progetto. Si narra di centinaia di ore di girato, di montaggi che hanno sacrificato intere sottotrame e interpretazioni di attori del calibro di Gary Oldman, Billy Bob Thornton, Martin Sheen o Mickey Rourke, testimoniando la ricerca ossessiva di Malick della verità emotiva e filosofica, al di là delle logiche di mercato o delle convenzioni divistiche. Questa devozione al processo creativo, quasi ascetica, è la cifra stilistica di un regista che plasma la materia filmica come uno scultore, eliminando il superfluo per rivelare l'essenza.

Ma l’attesa ha ripagato con uno dei più bei film di guerra di tutti i tempi: la vicenda del conflitto di Guadalcanal durante la seconda guerra mondiale. A differenza delle epopee belliche più convenzionali, spesso focalizzate sull'eroismo o la strategia, Malick ci immerge in una guerriglia estenuante e disorientante, dove il nemico non è solo il soldato giapponese celato tra la vegetazione, ma la stessa brutalità della natura, la disintegrazione psicologica, l'assurdità della violenza. Le vicende di un gruppo di soldati e della loro lotta estenuante per conquistare centimetro dopo centimetro posizioni fortificate e difese da un nemico invisibile, impalpabile, aereo, non sono che un pretesto per esplorare la condizione umana.

La guerra diviene pretesto e metafora di una lotta ontologica, in cui l’uomo si confronta con il proprio io, in cui l’individuo si ritrova denudato di ogni prodromo di umanità. L'orrore non è solo nei proiettili che fischiano, ma nel graduale smarrimento di sé, nell'annichilimento della morale e della pietà di fronte alla logica della sopravvivenza. Il film è una meditazione sulla natura del male, sulla capacità umana di infliggere e subire sofferenza, e sul paradosso della bellezza incontaminata della giungla che ospita tale scempio. Un film dove la voce narrante è poesia ed intimismo in balia di una violenza senza spiegazione, un inno silente alla dignità perduta.

Ed è proprio dalle voci interiori dei soldati che sale la critica più feroce ad ogni conflitto. Sono frammenti di coscienza che, come i versi di un Salmo moderno, cercano un senso nel caos o denunciano l'assurdo. Sussurra il soldato Witt: “Cos’è questa guerra stipata nel cuore della natura? perché la natura lotta contro se stessa? perché la terra combatte contro il mare? c’è forza vendicativa nella natura.”. Questa domanda retorica, che riecheggia interrogativi biblici e filosofici sulla presenza del male nel mondo, eleva il conflitto di Guadalcanal a una lotta cosmica, dove persino l'ecosistema sembra ribellarsi, riflettendo la violenza umana come uno specchio deforme. Il monologo del soldato Train mentre affronta la morte è una riflessione amara ed atroce sulla guerra: “Questo grande male, da dove viene? Come ha fatto a contaminare il mondo? Da quale seme, da quale radice si è sviluppato? Chi è l’artefice di tutto questo, chi ci sta uccidendo, chi ci sta derubando della vita e della luce prendendosi beffa di noi, mostrandoci quello che avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di sollievo alla terra? Aiuta l’erba a crescere, il sole a splendere? Questa ombra oscura anche te? Tu hai mai attraversato questo buio?”. In queste parole si condensa una disperazione abissale, un'invocazione quasi metafisica a un'entità superiore o alla natura stessa, che rimane indifferente di fronte alla catastrofe umana. È una negazione radicale di ogni gloria o giustificazione, un'accusa senza appello alla cecità e alla crudeltà insita nella guerra, che Malick ci restituisce con la lirica potenza di un'elegia funebre per l'anima umana.

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