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La strana coppia

1968

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Regista

Nella grande collisione di particelle che è la commedia cinematografica, poche reazioni nucleari hanno sprigionato un’energia così pura, così perfettamente bilanciata e così eternamente risonante come quella tra Jack Lemmon e Walter Matthau ne La strana coppia. Guardare oggi il film di Gene Saks, tratto dalla pièce omonima di Neil Simon, è come osservare la scoperta di una legge fisica fondamentale. La sua struttura appare così archetipica, la sua chimica così inevitabile, da farci dimenticare che qualcuno, un giorno, dovette inventarla. Eppure, sotto la superficie di una premessa da sitcom ante litteram – il casalingo maniacale e il cialtrone patentato costretti a una convivenza infernale – pulsa un cuore di tenebra esistenziale degno di un dramma da camera di Harold Pinter, mascherato con l'abito da sera della commedia di Broadway.

Il genio risiede, innanzitutto, nel testo di Simon, un orologiaio del dialogo la cui prosa possiede la cadenza metronomica e la precisione matematica di un'invenzione di Rube Goldberg. Ogni battuta è un ingranaggio che si incastra nel successivo, ogni pausa è calcolata per massimizzare la detonazione comica. Gene Saks, provenendo egli stesso dal teatro, compie un'operazione di traduzione filmica tanto intelligente quanto discreta. Non tenta di "aprire" la pièce in modo artificioso, non la violenta con virtuosismi registici superflui. Al contrario, comprende che il campo di battaglia è l'appartamento di Oscar Madison, un microcosmo di entropia domestica che diventa il palcoscenico perfetto per un duello che ha i crismi della tragedia greca e i tempi della farsa. Le pareti sudice, le pile di giornali, i resti fossili di cibo e le nuvole di fumo stagnante non sono semplice scenografia: sono la manifestazione fisica della psiche di Oscar, un paesaggio interiore fatto di caos, indolenza e una profonda, inconfessata solitudine.

In questo santuario della dissolutezza maschile irrompe Felix Ungar, un esule dal paradiso perduto della vita coniugale. E qui, l'alchimia attoriale raggiunge uno stato di grazia quasi soprannaturale. Jack Lemmon, maestro della nevrosi controllata, non interpreta Felix: lo incarna con ogni fibra del suo essere. La sua è una commedia del corpo che si fa specchio di un'anima in frantumi. Le sue dita che tamburellano, il suo schiarirsi la gola prima di ogni lamentela, i suoi scatti di pianto isterico e, soprattutto, quel suo modo di pulire e ordinare che non è un'abitudine ma una disperata liturgia per tenere a bada il caos dell'universo. Felix non è semplicemente un maniaco dell'ordine; è un sacerdote del controllo, un uomo che crede di poter esorcizzare il dolore della perdita spazzando via ogni singola briciola dal tappeto della vita. La sua ipocondria, la sua meticolosità culinaria, la sua incapacità di rilassarsi sono le sbarre della prigione che si è costruito per non affrontare il vuoto.

A lui si contrappone il monumento di Walter Matthau. Se Lemmon è un fascio di nervi tesi, Matthau è un centro di gravità. La sua recitazione è un capolavoro di economia, un trionfo della reazione laconica. Il suo Oscar Madison si muove nel proprio squallore con la grazia indolente di un orso in letargo, un filosofo epicureo del disordine la cui massima aspirazione è una partita a poker indisturbata e un sandwich al formaggio marcio. Matthau non ha bisogno di grandi gesti; la sua comicità risiede in uno sguardo, in un grugnito, nel modo in cui il suo corpo accartocciato sprofonda nel divano come se volesse essere riassorbito dalla materia inorganica. È l'uomo-massa, l'incarnazione del principio dionisiaco che si scontra frontalmente con l'apollineo Felix. La loro non è una semplice lite tra coinquilini: è la lotta eterna tra Ordine e Caos, tra la forma e la sua dissoluzione, combattuta a colpi di sottobicchieri e spaghetti scolati sulla parete della cucina.

Il film, uscito nel 1968, si inserisce in un contesto socio-culturale di profonda transizione. Mentre fuori, nelle strade d'America, infuriavano la contestazione giovanile, la rivoluzione sessuale e il dibattito sui ruoli di genere, La strana coppia mette in scena una curiosa forma di "mascolinità in crisi". Oscar e Felix sono due uomini espulsi dal modello tradizionale della famiglia nucleare, costretti a reinventarsi una forma di domesticità che scimmiotta quella matrimoniale in una chiave grottesca e platonica. Felix assume il ruolo tradizionalmente "femminile": cucina, pulisce, si preoccupa. Oscar quello "maschile": lavora (si fa per dire), porta a casa i soldi (che perde al gioco), e tenta goffamente di gestire le relazioni con l'altro sesso. La cena disastrosa con le sorelle Pigeon, due deliziose vedove inglesi, è la cartina di tornasole di questo fallimento. L'appartamento diventa una sorta di Purgatorio laico, un limbo dove due anime inadatte al mondo esterno cercano, fallendo miseramente, di creare una nuova normalità. In questo, il film anticipa decenni di buddy movies, ma lo fa con una profondità psicologica che raramente sarà eguagliata. Si potrebbe quasi leggere come una versione comica e borghese di Aspettando Godot di Beckett: due uomini intrappolati in uno spazio chiuso, legati da un rapporto di interdipendenza e reciproca tortura, che riempiono il vuoto con rituali e battibecchi per non dover ammettere di essere, in fondo, terribilmente soli.

La regia di Saks, come detto, è funzionale ma non per questo banale. La sua macchina da presa sa quando stringere sui volti per catturare la minima contrazione di un muscolo facciale – il tic di Lemmon, il sorrisetto sardonico di Matthau – e quando allargare il campo per mostrare i due personaggi come insetti intrappolati in una teca di vetro. L'uso dello spazio è magistrale: l'appartamento non è mai un luogo neutro, ma si trasforma a seconda di chi ne detiene il controllo. Sotto il regno di Oscar, è una caverna primordiale; con l'arrivo di Felix, diventa un salotto borghese asettico e inospitale. E su tutto aleggia la colonna sonora di Neal Hefti, un tema jazz iconico che cattura alla perfezione l'energia nevrotica, sincopata e irresistibilmente vitale della New York di fine anni Sessanta, una città che è essa stessa un personaggio, un gigantesco e soffocante appartamento in cui milioni di "strane coppie" sono costrette a convivere.

Ma al di là dell'analisi sociologica e della perfezione formale, ciò che rende La strana coppia un'opera immortale è la sua capacità di trasformare una situazione specifica in una metafora universale dell'amicizia e della tolleranza. Chiunque abbia mai diviso uno spazio, una vita o anche solo una vacanza con un'altra persona riconosce la verità disarmante che si cela dietro ogni gag. La frustrazione per le piccole abitudini altrui, l'insofferenza che si accumula fino a esplodere per una frase fuori posto, ma anche quell'affetto inspiegabile che ci lega a persone che sembrano essere il nostro esatto opposto. Felix e Oscar sono come Don Chisciotte e Sancho Panza confinati in un bilocale dell'Upper West Side: l'idealista e il realista, l'anima e il corpo, due metà imperfette di un intero impossibile. La loro separazione finale non è una sconfitta, ma una presa di coscienza: hanno imparato qualcosa l'uno dall'altro, si sono "contaminati" a vicenda quel tanto che basta per poter, forse, sopravvivere di nuovo nel mondo. Oscar impara a offrire un drink con un sottobicchiere, Felix a sporcarsi un po' le mani giocando a carte. È un progresso minimo, quasi invisibile, ma è l'unico progresso possibile in una commedia umana che, come ci insegna Neil Simon, è sempre a un passo dalla tragedia. Un capolavoro non perché ci fa ridere – cosa che fa, in modo sublime – ma perché, ridendo, ci mostra una radiografia spietata e allo stesso tempo compassionevole delle nostre stesse, meravigliose imperfezioni.

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