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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La talpa

2011

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Un silenzio denso, quasi solido, avvolge ogni fotogramma de "La talpa". Non è l'assenza di suono, ma una sua qualità specifica: è il silenzio di una biblioteca polverosa dopo l'orario di chiusura, il silenzio di una confessione mai pronunciata, il silenzio di una stanza in cui è appena morto qualcuno. Il regista svedese Tomas Alfredson, già maestro dell'atmosfera gelida con il suo vampiresco e sublime Lasciami entrare, non dirige un thriller di spionaggio. Dirige un esorcismo. O forse, più precisamente, un'autopsia. Il cadavere sul tavolo operatorio è l'Impero Britannico, e la causa del decesso è una lenta, inesorabile putrefazione morale che viene dall'interno.

Il film, adattamento del capolavoro omonimo di John le Carré, è l'antitesi esatta di James Bond. Se l'agente 007 è un'esplosione cinetica di certezze imperiali, glamour e violenza catartica, il mondo del "Circus" – il soprannome dell'MI6 – è un purgatorio burocratico color seppia e nicotina. Qui le uniche esplosioni sono implosioni emotive, soffocate dietro le lenti spesse degli occhiali di George Smiley. Gary Oldman, in una delle performance più monumentali e minimaliste della storia del cinema, non interpreta Smiley: lo abita. Si muove come un fantasma attraverso gli uffici, i corridoi e gli archivi che compongono la sua memoria e il suo mondo. Il suo corpo è leggermente curvo, come piegato dal peso dei segreti che ha portato per decenni. Il suo volto è una maschera di cortesia impassibile, ma i suoi occhi, ingranditi dalle lenti, sono scanner implacabili che registrano ogni tic, ogni menzogna non detta, ogni crepa nella facciata dei suoi vecchi colleghi.

La caccia alla "talpa", l'agente doppiogiochista sovietico infiltrato ai vertici del Circus, non è una questione di inseguimenti mozzafiato o sparatorie. È un esercizio di archeologia della memoria. Richiamato da una pensione forzata, Smiley deve setacciare i detriti di un'operazione fallita a Budapest, riascoltare nastri sibilanti, decifrare appunti criptici e, soprattutto, rileggere i volti dei suoi vecari amici, ora principali sospettati. Ciascuno di loro – l'ambizioso Percy Alleline (Toby Jones), il mellifluo Bill Haydon (Colin Firth), il rude Roy Bland (Ciarán Hinds) e l'insicuro Toby Esterhase (David Dencik) – è un pezzo di un puzzle la cui immagine finale è il ritratto di un tradimento che è al contempo nazionale e profondamente personale.

Alfredson orchestra questa discesa negli inferi della paranoia con una precisione chirurgica che ricorda il cinema di Jean-Pierre Melville, in particolare L'armata degli eroi. Entrambi i film condividono un senso di claustrofobia morale, dove la lealtà è una valuta svalutata e ogni gesto può essere un'abiura. Ma dove Melville dipingeva la Resistenza francese con i toni tragici di un'epica stoica, Alfredson sceglie la tavolozza cromatica di una pozzanghera stagnante: i marroni, i grigi, i gialli malati. La Londra degli anni '70 che emerge non è quella della Swinging London, ma una città spettrale, avvolta nella nebbia e nel declino industriale, specchio perfetto dell'istituzione che racconta. Gli interni del Circus, con le loro carte da parati scrostate e il fumo di sigaretta perenne, non sono semplici scenografie; sono un'architettura della paranoia, un labirinto kafkiano che intrappola le anime prima ancora dei corpi.

La struttura narrativa del film è essa stessa un labirinto, un dedalo di flashback che si incastrano nel presente come frammenti di un sogno febbrile. Il punto focale di questo meccanismo proustiano è la scena della festa di Natale del Circus, un ricordo ricorrente che Smiley riesamina ossessivamente. In questa singola sequenza si concentra tutto il dramma sotterraneo del film: le amicizie, le rivalità, gli adulteri, i segreti sussurrati. È un momento di apparente cameratismo che, con il progredire dell'indagine, si rivela un nido di vipere, un Giardino dell'Eden prima della Caduta. La cinepresa di Hoyte van Hoytema si muove lentamente, quasi con riluttanza, come se temesse di disturbare i fantasmi che popolano queste stanze.

Se Smiley è il sacerdote officiante di questo rito funebre, gli altri personaggi sono i penitenti e i dannati. Benedict Cumberbatch offre una performance nervosa e vibrante nei panni di Peter Guillam, il braccio destro di Smiley, i cui scatti di paura e violenza fungono da contrappunto alla calma glaciale del suo mentore. La sua missione per recuperare un registro da un archivio è l'unica sequenza che si avvicina a un canone da thriller tradizionale, ma Alfredson la filma non con eccitazione, bensì con un'ansia quasi insopportabile, trasformando un semplice furto di documenti in una discesa all'inferno burocratico. Tom Hardy, nel ruolo dell'agente operativo Ricki Tarr, è una scarica di adrenalina caotica in un mondo di controllo soffocante, la scheggia impazzita che rompe il vetro e costringe tutti a guardare le crepe.

Il film è un'opera profondamente letteraria, non solo per la sua fedeltà allo spirito di le Carré, ma per come tratta il linguaggio. Le parole sono armi, scudi e trappole. Un dialogo non è mai solo un dialogo; è un duello di scherma, dove ogni frase è una finta e il vero significato si nasconde nelle pause. La terminologia del Circus ("scalp hunters", "lamplighters", "janitors") non è gergo, è una liturgia, una lingua segreta che definisce e isola questo sacerdozio di uomini soli. Questi personaggi, così abili a manipolare la realtà per conto della nazione, hanno perso la capacità di avere rapporti umani autentici. L'unico legame che sembra reale è quello del tradimento, l'intimità più profonda che riescono a concepire. Questo è evidente nel sottotesto della relazione tra Smiley, la sua moglie infedele Ann, e il suo collega e amico Bill Haydon. Il tradimento coniugale e quello di stato si fondono in un'unica, lancinante ferita.

In un'insolita analogia, "La talpa" potrebbe essere visto come un western crepuscolare ambientato nel mondo dello spionaggio. Come i pistoleri di Sam Peckinpah in Il mucchio selvaggio, gli uomini di Smiley sono dinosauri di un'epoca al tramonto, legati a un codice d'onore obsoleto in un mondo che non capiscono più e che non ha più bisogno di loro. La loro guerra non è combattuta per l'ideologia – il comunismo è un'astrazione, un pretesto – ma per la sopravvivenza della loro tribù, del loro club esclusivo. La grande ironia, che il film sottolinea con una malinconia devastante, è che per salvare il Circus, Smiley deve distruggerlo dall'interno, sacrificando gli stessi uomini che un tempo chiamava fratelli.

Il finale è di una perfezione agghiacciante. Smiley, reintegrato nel suo ruolo, cammina attraverso gli uffici del Circus. La camera lo segue mentre prende il suo posto a capotavola. Il suo volto non mostra trionfo, ma un'infinita stanchezza. La vittoria ha il sapore della cenere. In sottofondo, la cover di "La Mer" di Julio Iglesias, scelta diabolicamente perfetta per la sua patina di romanticismo kitsch, suona come un epitaffio ironico per un mondo di sentimenti repressi e vite sprecate. È un momento che non offre alcuna catarsi, solo la fredda constatazione che nel gioco delle ombre, anche quando si vince, si è già perso tutto ciò che contava. "La talpa" non è un film che si guarda, è un film che si respira, come l'aria viziata di una stanza chiusa da troppo tempo. Un capolavoro gelido, complesso e indimenticabile, un requiem per un'era di uomini spezzati che giocavano a fare gli dei.

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