La terra promessa
2023
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Regista
C'è un fango primordiale, una torba acida e spazzata dal vento, al cuore de La terra promessa di Nikolaj Arcel. Non è un semplice elemento scenografico, ma una sostanza ontologica, la materia grezza da cui tutto ha origine e a cui tutto minaccia di tornare. È la brughiera dello Jutland, a metà del Settecento danese, una terra nullius sulla mappa d'Europa che il Re desidera colonizzare. In questo vuoto si proietta l'ambizione titanica, quasi folle, del capitano Ludvig Kahlen, interpretato da un Mads Mikkelsen la cui maschera facciale è ormai un trattato di stoicismo cinematografico. Il suo volto, solcato come la terra che intende domare, è il vero paesaggio del film: un territorio di volontà inscalfibile, ragione illuminista e una solitudine così profonda da diventare essa stessa una forma di armatura.
Arcel, che aveva già diretto Mikkelsen nel dramma storico A Royal Affair, qui abbandona le corti incipriate per orchestrarne l'antitesi: un'epica della zolla, un western boreale dove la frontiera non è il West americano ma la stessa, vecchia terra d'Europa, ostinatamente ribelle alla civilizzazione. Kahlen non è un cowboy, ma la sua determinazione laconica e la sua fede nel merito individuale contro i privilegi di sangue lo rendono un perfetto archetipo della frontiera. Arriva in questo nulla con un'idea semplice e rivoluzionaria: coltivare la patata, un tubero umile e straniero, per dimostrare che la brughiera può essere fertile. In cambio, chiede un titolo nobiliare. È il patto faustiano dell'uomo nuovo, il borghese che sfida l'Ancien Régime non con la ghigliottina, ma con l'agronomia.
Il film si struttura attorno a un'antinomia fondamentale, quasi archetipica. Da un lato, Kahlen: l'uomo del progetto, il geometra, il soldato che crede nell'ordine imposto dalla ragione e dal sudore. Il suo è un conflitto verticale, contro la natura, una lotta per far emergere la vita dal suolo sterile. Dall'altro, il suo antagonista, il magistrato locale Frederik De Schinkel (un Simon Bennebjerg magnificamente mefistofelico), rappresenta il caos orizzontale del potere feudale. De Schinkel non governa: possiede. La sua autorità non deriva dalla legge, ma dal capriccio, dalla tortura, da un sadismo quasi performativo che lo apparenta a un Caligola di provincia. Egli è l'inerzia violenta della storia, il privilegio che divora tutto ciò che non può controllare. Lo scontro tra i due non è solo una faida per un pezzo di terra; è la collisione tra due visioni del mondo: il futuro razionale contro il passato dispotico.
In questa struttura da western classico, con il pioniere solitario contro il barone prepotente, Arcel innesta una sensibilità profondamente europea, che risuona di echi letterari e cinematografici ben più cupi del mito fordiano. L'ossessione di Kahlen, la sua lotta contro una natura indifferente e brutale, evoca il delirio prometeico dei grandi anti-eroi di Werner Herzog. Come l'Aguirre di Kinski alla ricerca dell'El Dorado o il Fitzcarraldo che vuole costruire un teatro d'opera nella giungla, Kahlen è un monomaniaco la cui grandezza è indistinguibile dalla sua follia. La sua impresa non ha nulla di romantico; la brughiera non è il paesaggio sublime di Caspar David Friedrich, non ispira contemplazione ma fatica, non è un riflesso dell'anima ma un ostacolo materiale da superare a colpi di vanga. È la natura come la descriverebbe Jack London o, con ancora più pertinenza, Joseph Conrad: uno spazio primordiale che, invece di essere civilizzato, finisce per rivelare la barbarie latente nell'uomo "civile".
La regia di Arcel sposa questa visione con un realismo quasi tattile. La fotografia di Rasmus Videbæk immerge lo spettatore in una palette di bruni, grigi e verdi malati, colori di terra umida e cieli oppressivi. Sentiamo il freddo, la fatica, il dolore. La violenza, quando esplode, è improvvisa, goffa e devastante, priva di qualsiasi estetizzazione. È la violenza del mondo di Cormac McCarthy, dove la vita umana ha lo stesso peso di quella di un animale. In questo, La terra promessa si allontana dal dramma in costume per diventare un survival movie esistenziale, un trattato sulla fragilità del corpo umano e sulla tenacia dello spirito.
Tuttavia, il film trascende il puro pessimismo cosmico attraverso il suo cuore emotivo, che germoglia lentamente, come le patate di Kahlen. L'individualismo ferreo del capitano viene eroso dall'arrivo di due figure: la sua governante Ann Barbara (Amanda Collin), fuggita dalle grinfie di De Schinkel, e una bambina "Tater", Anmai Mus (Melina Hagberg), appartenente a un gruppo nomade e reietto. Insieme, formano una famiglia surrogata, un'improbabile comunità nata non da un progetto, ma dalla necessità e da un'empatia silenziosa. È qui che il paradigma del film si ribalta. Kahlen, l'uomo che voleva imporre un ordine razionale al mondo, scopre che il vero raccolto, l'unica cosa che può davvero mettere radici in quella terra desolata, è il legame umano. L'amore, la lealtà, la cura: forze irrazionali, imprevedibili, che sfuggono al suo controllo e mettono in crisi la sua intera visione del mondo.
C'è una scena potentissima in cui Kahlen, dopo aver finalmente ottenuto un primo, misero raccolto, lo mostra ad Ann Barbara con l'orgoglio di un demiurgo. Ma il suo sguardo non è ricambiato con ammirazione per l'impresa agronomica, ma con un affetto che lui non sa come decifrare. Per tutta la sua vita ha cercato di elevarsi al di sopra della sua condizione, di guadagnarsi un nome e un posto nella storia. Ma la vera eredità, suggerisce il film, non è quella che si scrive nei registri nobiliari, ma quella che si semina, quasi involontariamente, nel cuore degli altri.
In questo senso, La terra promessa è una profonda meditazione sul costo dell'ambizione, un tema che lo avvicina a capolavori come Il petroliere di Paul Thomas Anderson. Ludvig Kahlen, come Daniel Plainview, è un uomo disposto a sacrificare tutto per il suo scopo, ma a differenza del misantropo di Anderson, a Kahlen viene offerta una possibilità di redenzione, una scelta finale tra l'astratta conquista del titolo e la concreta difesa della sua famiglia improvvisata. La sua decisione finale non è un tradimento del suo progetto illuminista, ma il suo completamento. L'uomo della ragione impara che la vera civiltà non consiste nel domare la terra, ma nel coltivare l'umanità.
Con la sua portata epica, la sua brutale fisicità e la sua complessa indagine psicologica, La terra promessa si impone come un'opera monumentale. È un film che funziona su più livelli: come un avvincente dramma storico, come un western atipico e crepuscolare, e come una parabola senza tempo sulla lotta dell'uomo contro la natura, la società e, soprattutto, se stesso. È la storia di un uomo che è andato in un deserto per piantare patate e ha finito per raccogliere un'anima. Un capolavoro tellurico, austero e indimenticabile, destinato a mettere radici profonde nella storia del cinema.
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