La tigre e il dragone
2000
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Regista
Nel canone del cinema d'azione, la gravità è una costante teologica. La si può sfidare, momentaneamente sospendere con un balzo impossibile o un'esplosione calcolata, ma la sua tirannia è il fondamento su cui si regge ogni coreografia di violenza. Ang Lee, con La tigre e il dragone, non si limita a sfidare questa legge; la riscrive, trasformandola da principio fisico a variabile emotiva. I suoi guerrieri non volano perché sono forti, ma perché sono gravati dal peso dei loro desideri inespressi. Il loro levitare sui tetti di Pechino o tra le cime di un'eterea foresta di bambù non è una fuga dalla terra, ma una manifestazione visibile della lotta tra dovere e passione, tra il mondo come è e il mondo come lo si vorrebbe nel profondo del cuore. È un film che usa il linguaggio del wuxia – il cappa e spada cavalleresco cinese – per recitare una poesia che avrebbe potuto scrivere Emily Dickinson, se solo avesse brandito una spada al posto di una penna.
Per comprendere la portata rivoluzionaria dell'opera di Lee, bisogna contestualizzarla. Il genere wuxia, per il pubblico occidentale dell'anno 2000, era perlopiù relegato alle proiezioni di mezzanotte o alle videoteche più fornite, un universo di eroi volanti e codici d'onore impenetrabili dominato dai maestri della Shaw Brothers o dalla visionaria estetica di King Hu, il cui A Touch of Zen (1971) è l'evidente progenitore spirituale del duello tra i bambù. Lee, tuttavia, compie un'operazione di traslitterazione culturale e artistica quasi miracolosa. Prende l'epica del jianghu (il mondo delle arti marziali, una sorta di Far West mitologico) e la innesta su un'impalcatura drammaturgica che l'Occidente può riconoscere istantaneamente: quella del romanzo sentimentale ottocentesco. Il risultato è un film che ha la cinetica di un'opera di Yuen Woo-ping (il cui genio coreografico è qui all'apice) e l'anima di un'opera delle sorelle Brontë. La spada "Destino Verde" non è solo un'arma leggendaria, un MacGuffin che mette in moto la trama; è l'Excalibur di un mondo che ha perso la sua Camelot, un simbolo fallico di potere e retaggio che scatena il caos quando finisce nelle mani sbagliate, soprattutto se quelle mani appartengono a una donna che rifiuta il destino che le è stato scritto.
Il cuore pulsante del film è un quartetto di personaggi intrappolati in una ragnatela di sentimenti repressi. Da un lato, abbiamo la coppia adulta: il leggendario spadaccino Li Mu Bai (un Chow Yun-fat di sublime malinconia) e la sua compagna d'armi, la guerriera Yu Shu Lien (un'impeccabile e stoica Michelle Yeoh). Il loro è un amore trattenuto, congelato dal rispetto per un defunto compagno e dal peso del codice d'onore. Ogni loro sguardo, ogni pausa nel dialogo, è carico di una tensione erotica e tragica che le più esplicite scene d'amore di altri film non riescono nemmeno a sfiorare. I loro combattimenti non sono mai solo combattimenti; sono dialoghi frustrati, danze di desiderio e rimpianto. Quando si allenano, non stanno affinando le loro tecniche, ma confessandosi a fil di lama l'impossibilità del loro legame. È un melodramma di una raffinatezza struggente, dove l'onore diventa una prigione elegante e la maestria nelle arti marziali una metafora dell'autocontrollo emotivo.
A questo mondo di disciplina e rinuncia si contrappone la coppia giovane, l'uragano passionale del film. Jen Yu (una giovanissima e folgorante Zhang Ziyi) è la "tigre nascosta" del titolo, una nobildonna promessa a un matrimonio di convenienza che di notte si trasforma in una ladra mascherata e in una guerriera prodigiosa. È un personaggio di una complessità abissale: non è un'eroina né una cattiva, ma un concentrato di ambizione, invidia, talento e un disperato, quasi infantile, bisogno di libertà. È la Bovary del wuxia, intrappolata in una vita che non le appartiene e disposta a distruggere tutto pur di sfuggirvi. Il suo amore per il bandito del deserto Lo, "Nuvola Nera" (Chang Chen), è raccontato in un lungo flashback che sembra quasi appartenere a un altro film: un western romantico girato nelle vastità dello Xinjiang, pieno di colori primari, passione travolgente e furti di pettini che diventano pegni d'amore. Questo intermezzo narrativo non è un diversivo, ma la chiave di volta emotiva del film: ci mostra il mondo di libertà selvaggia che Jen desidera e che il mondo civilizzato e codificato di Li Mu Bai e Shu Lien le nega. Jen è l'entropia che invade un sistema ordinato, la forza caotica che costringe tutti a fare i conti con i propri "draghi" interiori.
L'estetica del film è una sinfonia visiva che ha ridefinito le possibilità del cinema. La fotografia di Peter Pau (giustamente premiata con l'Oscar) non si limita a catturare l'azione, ma dipinge ogni inquadratura con la grazia di un rotolo di seta della dinastia Song. I tetti grigi di Pechino diventano un palcoscenico per un balletto aereo, un inseguimento che è pura poesia cinetica, un sogno lucido dove le leggi della fisica si piegano alla volontà dei duellanti. E poi c'è la foresta di bambù. Quel duello tra Li Mu Bai e Jen non è una semplice scaramuccia; è un'ascensione, una danza verticale tra cielo e terra, una sequenza di una bellezza così trascendente da far sembrare goffo quasi tutto il cinema d'azione venuto prima e dopo. È un momento in cui il cinema diventa pittura in movimento, un'esperienza quasi mistica che eleva il film dal reame del genere a quello dell'arte pura. Ogni elemento, dai costumi di Tim Yip alla colonna sonora di Tan Dun, che mescola la tradizione cinese con la potenza di un'orchestra sinfonica occidentale e il violoncello di Yo-Yo Ma, contribuisce a creare un'opera totale, un'esperienza immersiva che parla tanto all'intelletto quanto ai sensi.
L'impatto de La tigre e il dragone fu sismico. Fu il film che dimostrò a Hollywood e al mondo che un'opera in mandarino, radicata in una tradizione culturale specifica, poteva non solo incassare centinaia di milioni di dollari, ma anche trionfare agli Oscar, conquistando lo spettatore di Minneapolis tanto quanto quello di Shanghai. Aprì le porte a un'ondata di wuxia d'autore, come Hero e La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou, che però, pur essendo visivamente spettacolari, non riuscirono mai a replicare la perfetta alchimia tra azione e introspezione psicologica del film di Lee. Il segreto del suo successo universale risiede nella capacità del regista di usare l'esotismo del genere non come un velo, ma come una lente d'ingrandimento per esplorare temi universali: l'amore, la perdita, la ribellione contro il destino, il conflitto tra la libertà individuale e le responsabilità sociali.
Il finale, con il suo enigmatico salto nel vuoto, è la chiusura perfetta per un'opera che ha costantemente giocato con il concetto di peso e leggerezza. Il desiderio di Jen di esaudire un ultimo desiderio la porta sul monte Wudang, un luogo di ascensione spirituale. Il suo tuffo tra le nuvole non è una resa, né un semplice suicidio. È un atto finale e ambiguo di trascendenza, un'ultima, definitiva liberazione dalle catene della gravità, sia fisica che emotiva. La tigre e il dragone rimane un capolavoro perché ci ricorda che le battaglie più spettacolari non sono quelle combattute con le spade, ma quelle che si svolgono nel silenzio del cuore umano. È un film che vola alto, ma la sua eco risuona nelle profondità della nostra anima, là dove tutti noi, prima o poi, dobbiamo affrontare le nostre tigri nascoste e i nostri draghi interiori.
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