Lama tagliente
1996
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Regista
L'American South cinematografico è un non-luogo dell'anima, un territorio mitopoietico dove il sole cuoce i peccati fino a farli evaporare in un'afa densa di rimpianti. È la contea di Yoknapatawpha di William Faulkner, l'universo grottesco e percorso da una grazia violenta di Flannery O'Connor. È un paesaggio in cui le verande scrostate nascondono drammi biblici e il ronzio delle cicale è la colonna sonora di una dannazione ereditaria. Dentro questo pantheon letterario e cinematografico, Billy Bob Thornton non si limita a entrare: pianta un'icona, scolpita con una lama affilata, quella del suo Karl Childers. Lama Tagliente non è un film, è un dagherrotipo sbiadito, un racconto tramandato a bassa voce che possiede la gravitas spaventosa e ineluttabile di una ballata folk dei monti Appalachi.
Il primo incontro con Karl è un'esperienza che si incide a livello sinaptico. Il corpo ingobbito, la mascella protesa come uno sperone di roccia, le mani che torturano un piccolo pezzo di legno, ma soprattutto la voce. Quella voce, un borbottio gutturale, un "Mmm-hmm" che è insieme punto, virgola e dichiarazione d'intenti. È un suono che viene da un luogo profondo e danneggiato, un motore diesel che fatica a partire. La performance di Thornton è un atto di possessione totale, una di quelle rare metamorfosi, al pari del De Niro di Toro Scatenato o del Daniel Day-Lewis di Il mio piede sinistro, in cui l'attore scompare per lasciare spazio a un'entità che sembra essere sempre esistita, in attesa solo di essere filmata. Karl è il Lennie Small di Steinbeck gettato nel mondo reale, un Kaspar Hauser emerso non dai boschi della Baviera ma dai recessi di un istituto psichiatrico dell'Arkansas, un "idiota" dostoevskiano la cui purezza di cuore è tanto una benedizione quanto una condanna.
Rilasciato dopo venticinque anni per un duplice omicidio commesso da bambino, Karl riemerge in un mondo che non capisce, ma che osserva con una logica elementare e disarmante. La sua moralità è binaria, forgiata nel trauma e ridotta ai minimi termini: giusto e sbagliato, gentilezza e crudeltà. Non c'è spazio per le sfumature. Il suo percorso non è quello della riabilitazione sociale, ma un pellegrinaggio spirituale alla ricerca di un posto, di una qualche forma di quiete. La trova, inaspettatamente, nell'amicizia con il giovane Frank (un esordio folgorante per Lucas Black), un bambino che vede oltre il grottesco esteriore e riconosce l'anima gentile che vi si annida. Attraverso Frank, Karl entra nella vita di sua madre Linda (Lisa Blucher) e del suo migliore amico Vaughan (un magnifico e sorprendente John Ritter), un uomo gay e insicuro che rappresenta un'oasi di tolleranza e comprensione in un mondo intriso di mascolinità tossica.
Ed è qui che Lama Tagliente trascende il dramma sul reietto per diventare un poema sinfonico della disfunzione. L'antagonista, Doyle (un irriconoscibile e terrificante Dwight Yoakam, stella del country prestata al demonio), non è un cattivo da manuale. È peggio. È il male banale, domestico, alcolizzato. È l'amarezza di una vita fallita che si sfoga con la violenza verbale e fisica, un concentrato di insicurezza e prepotenza che avvelena ogni stanza in cui entra. Lo scontro tra Karl e Doyle non è una semplice lotta tra bene e male, ma la collisione tra due archetipi del Sud. Da un lato Karl, il "mostro" gentile, il prodotto di una violenza biblica (la storia dei suoi genitori è puro gotico sudista, un racconto che Faulkner avrebbe approvato), che aspira alla pace. Dall'altro Doyle, l'uomo "normale", che incarna una violenza strisciante, quotidiana, accettata come parte del paesaggio.
Thornton, anche come regista, compie una scelta coraggiosa e controcorrente per il cinema americano degli anni '90, dominato dalla frenesia postmoderna tarantiniana. Abbraccia una lentezza contemplativa, quasi malickiana. La sua macchina da presa è paziente, statica, permette ai paesaggi dell'Arkansas di respirare e diventare personaggi. I dialoghi, scritti da lui stesso in un lavoro premiato con l'Oscar, hanno una cadenza ipnotica, una musicalità che trasforma i monologhi di Karl in arie d'opera folk. La celebre scena in cui Karl racconta la sua storia a un giovane giornalista non è un semplice "infodump", è un pezzo di bravura letteraria, un racconto dell'orrore che si srotola con la calma piatta di chi ha fatto pace con i propri demoni, o forse li ha semplicemente addomesticati.
La pellicola si inserisce in una tradizione cinematografica precisa, quella che vede in La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter) di Charles Laughton il suo capostipite. Il predicatore Harry Powell di Robert Mitchum e Karl Childers sono due facce della stessa medaglia: due figure quasi sovrannaturali che si insinuano in una famiglia spezzata per contendersi l'anima di un bambino. Ma se Powell era un lupo travestito da agnello, un'incarnazione del male che cita le Scritture, Karl è un Golem di gentilezza e trauma, un angelo custode con un passato da mietitore, la cui unica scrittura è incisa sulla sua anima ferita. Entrambi i film usano l'iconografia del Sud per esplorare la natura primordiale della fede, del peccato e della redenzione, ma se il film di Laughton è un incubo espressionista, quello di Thornton è un sogno febbrile, radicato in un realismo crudo e tangibile.
Il climax è inevitabile, tragico e, in un modo perverso, catartico. Non è uno spoiler rivelare che la violenza torna, perché è l'unica lingua che Karl, alla fine, conosce per proteggere l'innocenza. Il suo atto finale non è un ritorno alla bestialità, ma un sacrificio consapevole, un gesto d'amore estremo che segue una logica ferrea e terribile. È la chiusura di un cerchio, la restituzione di un debito contratto con il mondo nell'infanzia. Karl si auto-condanna per salvare la famiglia che si è scelto, accettando il suo ruolo di "mostro" necessario, l'agnello sacrificale che si carica dei peccati del mondo per permettere ad altri di vivere. La scena finale, con Karl che guarda fuori da una finestra sbarrata, di nuovo in istituto, mentre la pioggia cade, non suggerisce sconfitta, ma una sorta di pace terribile, la quiete di chi ha finalmente compiuto il proprio scopo sulla Terra.
Lama Tagliente è un'opera che continua a vibrare a decenni di distanza perché non offre risposte facili. Ci chiede di guardare l'umanità nel suo stato più danneggiato e di trovarvi la grazia. È un film che afferma che le famiglie non sono sempre quelle in cui nasciamo, e che gli eroi possono avere voci roche e passati insanguinati. È la dimostrazione che un piccolo film indipendente, nato da un monologo teatrale e cresciuto con la tenacia del suo autore, può contenere più verità sull'animo umano di cento blockbuster. Karl Childers è entrato di diritto nel canone dei grandi personaggi del cinema, non come un semplice ritardato mentale, ma come un filosofo involontario, un santo storpio la cui lama, alla fine, non serve per uccidere, ma per recidere i legami con un passato che altrimenti continuerebbe a divorare il futuro. Gnam!
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