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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Lasciami entrare

2008

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Un freddo siderale, quasi metafisico, impregna ogni fotogramma di Lasciami entrare. Non è semplicemente il gelo dell'inverno svedese del 1982, una coltre di neve sporca che uniforma il paesaggio suburbano di Blackeberg, ma una glaciazione dell'anima che si fa mondo. Il regista Tomas Alfredson, adattando il romanzo seminale di John Ajvide Lindqvist, non dirige un film dell'orrore; orchestra un poema lirico sulla solitudine, un requiem per l'innocenza che utilizza il vampirismo come la più potente e disperata delle metafore. Per afferrare la grandezza di quest'opera, bisogna prima spogliarla delle sue zanne e del suo sangue, e guardare al vuoto che circonda i suoi due giovanissimi protagonisti.

Da una parte c'è Oskar, un dodicenne esile e biondissimo, un fantasma prima ancora di incontrare un vero non-morto. La sua esistenza è un catalogo di umiliazioni silenziose, un microcosmo di crudeltà scolastica che risuona con l'universalità dei reietti alla Antoine Doinel di Truffaut. Ma Oskar non è un puro agnello sacrificale. Nella solitudine della sua stanza, che sembra un asettico diorama del fallimento del "folkhemmet", il modello sociale svedese, egli coltiva fantasie di vendetta. Colleziona ritagli di cronaca nera, brandisce un coltello contro un albero nel cortile deserto, sussurrando i nomi dei suoi aguzzini. È un piccolo Raskol'nikov in divenire, un'anima in attesa di un catalizzatore che possa trasmutare la sua rabbia repressa in azione. Alfredson lo filma con una staticità che ne amplifica l'impotenza: la sua rabbia è un ronzio a bassa frequenza, inaudibile per il mondo degli adulti, divorziati e distratti, che lo circonda.

Dall'altra parte, letteralmente al di là del muro, c'è Eli. Appare nella neve, a piedi nudi, una contraddizione vivente nel gelo opprimente. La sua natura è un enigma stratificato. Non è il vampiro aristocratico e seduttore della tradizione stokeriana, né la bestia ferina di Nosferatu. Eli è un'anomalia, un paradosso esistenziale: un predatore antichissimo intrappolato in un corpo pre-adolescenziale. La sua fame non è un vezzo gotico, ma una necessità biologica, sporca e degradante, esternalizzata nella figura tragica di Håkan, il suo "familiare" invecchiato, un Renfield patetico e commovente la cui devozione si spinge fino all'autodistruzione chimica in un letto d'ospedale. L'ambiguità di Eli – di genere, di età, di moralità – è il cuore pulsante del film. La domanda di Oskar, "Sei una ragazza?", e la risposta evasiva di Eli, "Sono come te", trascendono la biologia per toccare una verità più profonda sulla natura dell'identità e dell'alterità.

L'incontro tra queste due solitudini non genera una storia d'amore, ma un patto faustiano, una simbiosi terrificante e necessaria. Il loro corteggiamento non si consuma con fiori o parole dolci, ma con un cubo di Rubik e messaggi in codice Morse picchiettati attraverso una parete, un dialogo intimo e segreto che bypassa il mondo fisico. Alfredson costruisce la loro relazione attraverso una grammatica visiva di prossimità e distanza, di campi lunghi che li isolano nel paesaggio e di primi piani che ne scrutano le micro-espressioni. La scena più iconica, in cui Eli, non invitata, entra nella stanza di Oskar e inizia letteralmente a sanguinare da ogni orifizio, è una tesi cinematografica sul consenso e sulla fiducia. L'invito a "entrare" non è una mera formalità del folklore vampiresco, ma l'atto fondativo del loro legame: un'accettazione totale dell'altro, mostruosità inclusa. Oskar accetta il mostro perché il mostro, a differenza degli umani, lo vede e lo protegge.

Il film si muove con un ritmo deliberatamente lento, quasi contemplativo, che ricorda più il cinema di un Roy Andersson privato del suo humour surreale che un horror convenzionale. Alfredson rifiuta categoricamente il jump scare. L'orrore non è un'esplosione improvvisa, ma una marea montante di disagio. La violenza, quando arriva, è brutale, goffa e priva di ogni spettacolarizzazione. È la violenza sgraziata del mondo reale che irrompe in un'atmosfera onirica. La fotografia di Hoyte van Hoytema dipinge questo sobborgo di Stoccolma con una palette desaturata, dominata dai bianchi, dai grigi e dai marroni, dove l'unica macchia di colore vibrante è il rosso del sangue, una nota stonata e vitale in una sinfonia di apatia. Questa estetica del vuoto non è solo una scelta stilistica, ma un commento socioculturale: è il ritratto della fine di un'utopia, dove la pulizia architettonica del brutalismo non riesce a nascondere il disordine emotivo e la frammentazione sociale.

È impossibile non leggere Lasciami entrare come una fiaba dei fratelli Grimm riscritta per l'era della socialdemocrazia in crisi. Come in ogni fiaba che si rispetti, i confini tra bene e male sono labili e la salvezza ha un prezzo terribile. La scena catartica e agghiacciante nella piscina è l'apice di questa logica fiabesca. Oskar, sul punto di essere annegato dai suoi bulli, viene salvato da un'esplosione di violenza primordiale. Alfredson compie una scelta registica geniale: mantiene la prospettiva di Oskar sott'acqua, ovattando i suoni della carneficina in un silenzio liquido e innaturale. Vediamo solo frammenti di caos: un braccio che cade, una testa mozzata che galleggia. Quando Oskar riemerge, il suo salvatore è lì, e sul suo volto non c'è orrore, ma una serena, quasi impercettibile, accettazione. In quel momento, il patto è sigillato per sempre. Oskar non è più una vittima. È diventato il custode del mostro, il nuovo Håkan.

Il finale, con Oskar che viaggia su un treno nascosto in una cassa insieme a Eli, non è un lieto fine, ma l'inizio di un'altra storia, forse ancora più oscura. Il ragazzino picchietta un messaggio in codice sulla cassa, e dall'interno Eli risponde. Comunicano nel loro linguaggio segreto, isolati dal resto del mondo, diretti verso un futuro incerto. È un'immagine di una bellezza straziante, l'emblema di una dipendenza reciproca che è sia salvifica che condannata. Oskar ha trovato chi lo proteggerà, ma a quale costo? Ha scambiato il suo isolamento con un altro, forse più profondo. Ha trovato l'amore, o semplicemente la sua perfetta, complementare disfunzione?

Lasciami entrare è un'opera che resiste a facili categorizzazioni. È un horror esistenziale, un racconto di formazione deviato, un'analisi spietata della crudeltà infantile e dell'indifferenza adulta. È un film che, come i suoi protagonisti, chiede di essere accolto, di superare le barriere del genere per poterne apprezzare la complessità tematica e la superba maestria formale. È un capolavoro gelido e struggente, che si insinua sotto la pelle e vi rimane a lungo, un sussurro nel buio che ci ricorda che i mostri peggiori, a volte, sono quelli che ci ignorano, e la salvezza più grande, a volte, ha un volto mostruoso.

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