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Ultimo Tango a Parigi

1972

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Un film distruttivo e distrutto, si potrebbe sintetizzare con questo calembour la genesi di “Ultimo Tango a Parigi”.

“Distruttivo” perché spezzò molte convenzioni di un certo tipo di cinematografia, osando mostrare una sensualità pulsante e ferina, scevra da ogni vincolo borghese. Non si trattava solo di sdoganare una sessualità più esplicita, ma di rivelare l'intimità umana nella sua crudezza più disarmante, al di là delle idealizzazioni romantiche o delle volgarizzazioni pornografiche. Bertolucci non si limita a infrangere tabù; disseziona l'anatomia di un rapporto che nasce dal vuoto, dalla disperazione e dalla negazione, sfidando la morale precostituita e l'ipocrisia di una società borghese che preferiva l'ordinaria ipocrisia al caos emotivo. La sua audacia si inseriva in quel filone del cinema europeo degli anni '70 che, da Pasolini a Fassbinder, esplorava con sguardo clinico e spesso impietoso le derive dell'animo umano e le contraddizioni sociali, ma con una veemenza erotica e psicologica raramente eguagliata.

“Distrutto” perché il film fu attaccato in modo talmente violento che venne addirittura sequestrato dalle sale e materialmente distrutto (fortunatamente alcune copie scamparono alla furia censoria). La condanna non fu solo morale, ma giudiziaria, culminata in un rogo di bobine e nella privazione dei diritti civili per il regista, un atto di tale fanatismo repressivo da evocare le peggiori pagine della storia culturale. Fu un vero e proprio linciaggio mediatico e legale, un'isteria collettiva scatenata da un'opera che osava mettere a nudo il disagio esistenziale e sessuale in un'Italia ancora profondamente bigotta, pur se in fermento per i grandi cambiamenti sociali e politici. Quella "distruzione" paradossalmente, ne cementò il mito, rendendolo un simbolo di resistenza artistica contro l'ottusità della censura.

La storia è quella di Paul (Marlon Brando) che vaga senza meta in una Parigi alienante. Ha da poco perso la moglie ed è senza più scopo, un uomo alla deriva, un relitto esistenziale approdato in una capitale che, lungi dall'essere il nido romantico delle cartoline, si rivela un labirinto di solitudine e cemento grigio. L’incontro con una giovane di buona famiglia, Jeanne (Maria Schneider), scatenerà una passione che varcherà i confini del prestabilito per esplorare ogni più nascosto recesso dell’erotismo e della psiche. L'appartamento vuoto, spoglio di mobili e identità, diviene il loro non-luogo, un'arena primordiale dove i due possono spogliarsi non solo dei vestiti ma anche dei nomi, delle storie, delle convenzioni, in un tentativo disperato di raggiungere una verità nuda e insopportabile. È una ricerca di autenticità attraverso la negazione, un esperimento sul limite del dolore e del piacere, destinato a implodere.

Una scena memorabile tramandata per generazioni è la cosiddetta scena del burro: Brando sta mangiando del formaggio seduto sul pavimento di una casa vuota quando entra Maria a cui chiede del burro che, contrariamente a quanto si possa pensare, non serve per accompagnare il formaggio ma come strumento per rendere più facile la sodomizzazione della ragazza a cui, durante l’atto, ricorda quanto il concetto di famiglia sia nefasto per la libertà di un uomo. Questo momento, la cui brutalità è stata oggetto di infinite discussioni e polemiche – anche e soprattutto per le accuse mosse anni dopo da Maria Schneider sulla manipolazione emotiva durante le riprese – trascende il mero atto sessuale per divenire un rito di de-identificazione. Paul, con la sua rabbia nichilista e la sua disperazione, cerca di smantellare le fondamenta dell'identità borghese di Jeanne, di strapparle via la patina di buone maniere e la speranza di una vita convenzionale. È un attacco frontale ai pilastri della società, un tentativo di purificazione attraverso l'annientamento, un'affermazione di libertà anarchica che si traduce in sopraffazione. Non è erotismo nel senso comune, ma una dolorosa esplorazione dei meccanismi di potere, sottomissione e ribellione che possono annidarsi nell'intimità più profonda.

Monumentale interpretazione di Brando che con il suo talento (molte scene furono improvvisate e ideate dall’attore, rendendo la sua performance quasi un happening esistenziale) crea il film e ne diviene Demiurgo e Nemesi. La sua figura corpulenta, la voce roca e cavernosa, l'intensità che sprigiona da ogni poro, fanno di Paul non un personaggio, ma una forza della natura, un uragano di dolore e rabbia che si abbatte sullo schermo. È l'incarnazione della crisi dell'uomo occidentale, disilluso e preda di un'angoscia senza nome. La sua capacità di fondere improvvisazione e tecnica attoriale, di scavare nel proprio inconscio per portare in superficie la verità più scomoda, è qui al culmine. Accanto a lui, Maria Schneider, con la sua fragilità ribelle e la sua bellezza acerba, è la controparte necessaria, il simbolo di una gioventù in cerca di sé stessa in un mondo che offre poche risposte, riuscendo a restituire la complessità di una ragazza divisa tra curiosità e paura, tra desiderio di libertà e bisogno di protezione.

Bertolucci ha il merito di lasciarlo libero al centro della scena e di assecondarlo con una cinepresa fluida, umbratile, nervosa, mai ridondante. La regia di Bertolucci è un'opera di raffinata orchestrazione psicologica e visiva. Il suo sguardo, spesso voyeuristico ma mai giudicante, si muove sinuoso attraverso gli spazi claustrofobici dell'appartamento e le strade umide di una Parigi invernale, creando un'atmosfera di cupa malinconia e ansiosa attesa. L'uso dei colori – tonalità fredde, desaturate, che evocano il senso di isolamento e desolazione – e la colonna sonora malinconica e jazzata di Gato Barbieri, diventano parte integrante del racconto, esaltando il senso di deriva e l'amara dolcezza di un legame effimero e distruttivo. Bertolucci non si limita a osservare; egli scava, indaga le profondità dell'animo umano con la precisione di un chirurgo e la sensibilità di un poeta, confermando la sua posizione tra i grandi maestri del cinema moderno, capace di unire l'introspezione freudiana con un'estetica visiva di sorprendente forza. "Ultimo Tango a Parigi" rimane un'opera audace e controversa, un monito sulla fragilità dell'individuo e sulla violenza insita nella ricerca di una libertà assoluta.

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