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Lawrence d'Arabia

1962

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Regista

Il cinema di Lean ha indubbiamente un grande merito: quello di riuscire a riscuotere lo stesso grande successo sia presso il pubblico che presso la critica. Una rara alchimia che pochi cineasti hanno saputo padroneggiare con altrettanta maestria, elevando la grandiosità dello spettacolo a veicolo di profonda indagine psicologica e morale. Non si tratta semplicemente di mettere in scena eventi epocali, ma di farne risuonare l'eco nell'animo umano, come già dimostrato in opere capitali quali Il Ponte sul Fiume Kwai o Dottor Zivago.

In questa monumentale opera di oltre tre ore e mezza, un affresco visivo e narrativo di rara potenza, Lean riesce a definire una vera e propria grammatica delle immagini. È un deposito iconografico che comprende esotici paesaggi trasformati in personaggi silenziosi e imponenti, conturbanti avventurieri mossi da ideali e pulsioni oscure, scene di guerra e di folclore che si imprimono nella retina, sabbie abbacinanti che divengono specchio dell'anima e palmizi scossi dal vento che narrano la fragilità dell'esistenza umana. La regia di Lean, coadiuvata dalla sublime fotografia di Freddie Young in Super Panavision 70mm, non si limita a ritrarre il deserto, ma lo rende un'entità viva, un teatro primordiale dove l'uomo si confronta con l'infinità e la propria effimera grandezza. Ogni inquadratura è un dipinto, un caleidoscopio di toni ocra e azzurri che traduce visivamente l'epos e la solitudine.

La sua grande capacità è quella di plasmare un linguaggio universale, immediatamente fruibile da qualsiasi spettatore, e al contempo di raggiungere un altissimo livello cinematografico, un canone estetico dal valore indiscusso che ha influenzato generazioni di registi, da George Lucas a Steven Spielberg. La pellicola non è solo una cronaca, ma un'esplorazione archetipica del mito dell'eroe, della costruzione dell'identità e della corruzione del potere, temi che travalicano il contesto storico per toccare corde universali.

Qui ha anche il merito innegabile di scoprire, e far scoprire al mondo con fragore deflagrante, il furore magnetico e la vulnerabilità celata negli occhi azzurri di Peter O’Toole, attore fino a quel momento semisconosciuto pescato dalla TV. O'Toole incarna alla perfezione con il suo indiscutibile carisma attoriale uno degli ultimi grandi eroi britannici in terra straniera, un enigma in carne e ossa che si muove tra la megalomania e il masochismo, il misticismo e la crudeltà. La sua performance non è una semplice interpretazione, ma una possessione: Lawrence diviene un camaleonte, un profeta, un guerrigliero, un poeta e un politico, la cui adozione degli abiti arabi simboleggia non solo una strategia militare, ma una profonda crisi identitaria, un tentativo di trascendere il proprio sé coloniale per abbracciare un destino messianico. O’Toole riesce a veicolare la complessità di una figura storica controversa, bilanciando il carisma pubblico con le turbolenze interiori, la sete di gloria con l'ambivalenza sessuale e la crescente disillusione.

Thomas Edward Lawrence è un giovane ufficiale britannico distaccato al Cairo nel 1916 e con l’ordine preciso di investigare sulle tensioni tra arabi e turchi occupanti. Quella che inizia come una missione di ricognizione si trasforma presto in un'odissea personale e politica. In breve diverrà il leader della ribellione contro l’oppressore turco, una figura leggendaria venerata da ogni arabo, un condottiero che, cavalcando tra le dune, sogna la riunificazione di un popolo frammentato. Il film non esita a esplorare l'ambivalenza del ruolo del "salvatore bianco", mostrando come la fascinazione per l'altro possa confondersi con la manipolazione e l'auto-esaltazione.

Ma in breve tempo, Lawrence diventerà un personaggio scomodo per Londra, una pedina ingombrante su una scacchiera geopolitica ben più cinica. Grazie infatti alle sue vittorie contro i turchi, stava effettivamente riunificando sotto la sua bandiera tutta la nazione araba, cosa che gli inglesi volevano evitare, a causa delle loro mire colonialiste sulla penisola arabica e gli accordi segreti, come il nefasto Sykes-Picot, che già delineavano la spartizione post-bellica del Medio Oriente. La sua visione di un'Arabia libera e unita collideva frontalmente con gli interessi imperiali, rivelando il volto più spietato della Realpolitik. La pellicola non fa sconti, smascherando l'ipocrisia di un impero che sfruttava gli ideali di libertà per perseguire i propri fini economici e strategici.

Fu così che, nonostante i suoi grandi successi militari — clamorosa fu l'audace e strategica presa di Aqaba — venne messo da parte frettolosamente dall’esercito, la sua leggenda relegata in un angolo oscuro della storia britannica. Il film si conclude con la tragica ironia della sua morte: lui, che aveva sfidato la morte in mille battaglie e attraversato indenne le sabbie insidiose e le pallottole nemiche, perì in un banale incidente motociclistico sulle strade d'Inghilterra, un epilogo quasi sarcastico per un uomo che aveva vissuto una vita da epopea. È il ritratto della caduta di un'idealista schiacciato dalla macchina del potere, una parabola sulla futilità della gloria quando essa è solo un mezzo per i disegni altrui.

Se ha ancora senso parlare di epica per la Settima Arte, ebbene questo film ne incarna a fondo il significato più profondo. Lawrence d'Arabia non è soltanto un film storico o di avventura; è una sinfonia visiva e narrativa, un'indagine sulla psiche umana posta di fronte a scenari immensi, un'opera senza tempo che continua a interrogarci sul prezzo del potere, sulla fluidità dell'identità e sulla complessità del lascito coloniale. È un monumento cinematografico che risplende ancora oggi con la stessa, abbagliante luce del sole sul deserto.

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