I Senza Nome
1970
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Regista
Un’opera che costruisce sul silenzio della marginalità il suo patrimonio semantico, tessendo una trama di significati profondi che emergono non tanto dal dialogo esplicito quanto dalle azioni misurate e dagli sguardi carichi di non detto. In questo universo melvilliano, l'eloquenza risiede nell'assenza di rumore superfluo, nel minimalismo che eleva il gesto a dichiarazione d'intenti. La marginalità, qui, non è solo una condizione sociale dei suoi antieroi, ma una scelta esistenziale, una sorta di monasticismo laico che li isola dal frastuono del mondo ordinario, rendendoli figure quasi archetipiche, prive di legami superflui ma legate da un codice d'onore invisibile.
Jean-Pierre Melville, autentico architetto di un cinema fatto di precisione quasi chirurgica, emerge come il maestro indiscusso di un'umanità solitaria, destinata a incrociarsi al bivio del caso e del fato. In questo crocevia di destini, egli non si limita a narrare una semplice rapina, ma definisce le regole di un gioco esistenziale in cui tre uomini, un attimo prima perfetti sconosciuti, vengono fatalmente attratti l'uno verso l'altro per un progetto comune: svaligiare una gioielleria. Ma ciò che li unisce non è solo l'avidità o la necessità; è un'affinità elettiva dettata da un codice non scritto, una sorta di deontologia criminale che, nella visione melvilliana, si fa più stringente e nobile di molte leggi civili. La trama del "colpo perfetto" diviene così il pretesto per esplorare le profondità di questi legami forgiati nell'acciaio della determinazione e nella precarietà dell'esistenza, in un'eco costante del noir americano che tanto influenzò il regista, ma riletto attraverso una lente filosofica squisitamente francese.
Si noti, in tal senso, la scena magistrale in cui Alain Delon – Corey, l'elegante professionista appena uscito di prigione – incrocia Gian Maria Volonté – Vogel, il fuggitivo dall'animo selvaggio. L'avvicinamento dei due non è un semplice incontro fortuito, ma una danza di esitazioni e diffidenze, dove si respira una sorta di distonia, una cacofonia palpabile prima ancora che un suono venga emesso. È un confronto tra due mondi, due energie distinte, l'una glaciale e controllata, l'altra vulcanica e imprevedibile, destinate a collidere ma anche a compenetrarsi. Melville costruisce questo momento con una regia implacabile, fatta di primi piani eloquenti e movimenti di macchina che catturano ogni sfumatura di sospetto e potenziale alleanza. L'aria stessa è densa di una tensione quasi tangibile, presagio di un legame che trascende la mera convenienza.
Poi, con una lentezza quasi rituale, i due lentamente si toccano, si annusano, si riconoscono. Si conoscono, non attraverso il vaniloquio o le presentazioni formali, ma tramite un'intesa tacita, un'affinità di intenti e di solitudine che li unisce in un’amicizia profonda, quasi sacra, che non necessita di parole. Questa è la cifra del cinema di Melville: le relazioni si forgiano nel silenzio e nella reciproca comprensione di un codice d'onore che pochi eletti comprendono. È qui che emerge il tema del "cerchio rosso", evocato dalla criptica epigrafe iniziale che narra di un cerchio invisibile che lega gli uomini destinati a incontrarsi, al di là di ogni logica o volontà. Un legame karmico, quasi, che trasforma il destino in una complessa coreografia, una danza di marionette invisibili dove i fili sono tessuti dal fato.
Quella fusione di anime, osservata con l'occhio clinico del maestro, rappresenta una pagina di altissimo cinema, dove la suspense non deriva tanto dall'azione quanto dall'attesa, dalla palpabile tensione che precede l'esplosione, un'attesa quasi bressoniana nel suo rigore ascetico e nella sua precisione metronomica.
La storia prosegue con un'accuratezza quasi documentaristica, seguendo le vite parallele e poi convergenti di questi tre uomini – ai quali si aggiunge il toccante ispettore in pensione Jansen, interpretato da un Yves Montand in stato di grazia, un alcolista redento la cui razionalità dissolta si manifesta in uno sguardo sempre obliquo e carico di malinconia. Il progetto del colpo non è mai frettoloso, ma prende corpo con una meticolosità quasi ossessiva, una preparazione rituale che è essa stessa parte integrante dello spettacolo. Melville ci immerge in un mondo di procedure e dettagli, dal reperimento degli strumenti alla mappatura degli spazi, trasformando la pianificazione in una sinfonia di gesti precisi e silenziosi, quasi un balletto meccanico, fino al momento fatidico in cui occorre entrare in azione. Questa fase di preparazione, che occupa un segmento significativo del film, è un capolavoro di montaggio e ritmo, che esalta la professionalità e la dedizione dei protagonisti, indipendentemente dalla loro moralità, riflettendo la stessa precisione quasi maniacale che Melville applicava sul set.
Quello che emerge è un film incantevole, pervaso da un'atmosfera sospesa e fatalista, opera di un cineasta sensibile all’emozione della casualità, a come questa regoli vite e decida il destino degli uomini. Ma in Melville, la casualità è spesso solo una maschera per un destino già scritto, un'ineluttabilità che permea ogni inquadratura, quasi a suggerire una cosmogonia predefinita. Non è un caso che molti critici abbiano accostato il suo stile al rigore del film noir americano, di cui Melville era un ammiratore devoto, o alla solennità quasi samuraica di certi drammi di Akira Kurosawa, dove l'onore e la precisione del gesto superano ogni contingenza morale. In "I Senza Nome", ogni personaggio è un ingranaggio di un meccanismo più grande, una pedina mossa da forze invisibili ma inesorabili, e la loro caduta non è mai il risultato di un errore banale, ma l'inevitabile conclusione di un percorso preordinato. La rapina, in questo contesto, non è solo un atto criminale, ma una performance, quasi un rito di passaggio in un mondo dove i confini tra bene e male sono fluidi e irrilevanti, e dove l'unica vera legge è quella della lealtà e della propria, intima, coerenza.
In questo delicato equilibrio tra azione e contemplazione, i tre interpreti sono semplicemente superbi, veri e propri pilastri su cui poggia l'intera impalcatura narrativa. Alain Delon, nel ruolo di Corey, è un monumento di magnetismo glaciale, la cui bellezza scultorea maschera una profonda malinconia e una rassegnazione quasi buddhista. I suoi silenzi sono più eloquenti di mille dialoghi, e ogni suo movimento è calcolato, preciso, emanando un'aura di dignità che rende il criminale quasi tragico. Gian Maria Volonté, d'altro canto, offre una performance di rara intensità nel ruolo di Vogel, incarnando una lucida follia che è tanto viscerale quanto controllata, una forza primordiale che si muove ai margini della civiltà, ma sempre all'interno di un proprio, ferreo codice. E poi c'è Yves Montand, l'ex poliziotto Jansen, il cui volto segnato e la cui razionalità dissolta in uno sguardo sempre obliquo restituiscono un ritratto commovente e tragico di un uomo in bilico sull'abisso, una figura di redenzione e disperazione che funge da ponte tra i due mondi. Ma non si può non menzionare anche la performance di André Bourvil nei panni del Commissario Mattei, il poliziotto metodico e disincantato, il cui ruolo non è quello di un antagonista unidimensionale, ma di un contraltare malinconico, anch'egli parte di quel cerchio inesorabile, mosso da un proprio senso del dovere e di una solitudine speculare a quella dei criminali che insegue. "I Senza Nome" non è solo un film di genere, ma un'elegia sulla condizione umana, un saggio sulla solitudine e sulla confraternita, un'opera senza tempo che continua a risuonare per la sua rigorosa bellezza e la sua profondità intellettuale, un capolavoro che conferma Melville come uno dei più grandi visionari del cinema moderno, capace di elevare il polar a pura arte filosofica.
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