Le onde del destino
1996
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Regista
Un'ordalia. Se si dovesse distillare in un unico termine l'esperienza di Le onde del destino, "ordalia" sarebbe il più calzante. Un processo giudiziario arcaico, di matrice divina, in cui l'innocenza o la colpevolezza vengono determinate da una prova fisica estrema. E qui la prova non è solo per la protagonista, la tormentata e luminosa Bess McNeill, ma per lo spettatore stesso, costretto da Lars von Trier a un rito di passaggio cinematografico che lascia scorie, dubbi e una sgradevole, potentissima forma di grazia. Il film, primo capitolo della cosiddetta "Trilogia del Cuore d'Oro", è un sismografo emotivo che registra le scosse di un'anima al limite, filmato con la brutalità di un documentario di guerra e strutturato con la solennità di un testo sacro.
Siamo su un'isola scozzese remota, battuta dal vento e dalla morale calvinista più rigida. Un luogo dove Dio è un'entità severa e patriarcale, i cui precetti vengono amministrati da un concilio di anziani barbuti che sembrano usciti da un dipinto di Rembrandt. In questo microcosmo teocratico, Bess (un'esordiente Emily Watson in una delle performance più annichilenti della storia del cinema) è una creatura "semplice", una "holy fool" dostoevskiana la cui purezza è così radicale da essere scambiata per instabilità mentale. Le sue conversazioni dirette con Dio, in cui interpreta sia l'accusatore che il consolatore, sono il cuore pulsante e disturbante del film. Von Trier, con diabolica maestria, non chiarisce mai se si tratti di autentica comunione mistica o di un dialogo schizofrenico. Bess è una santa o una pazza? Forse, come suggeriva Flannery O'Connor nelle sue storie gotiche del Sud americano, le due cose non sono mutuamente esclusive, e la grazia si manifesta proprio attraverso il grottesco e il violento.
L'arrivo di Jan (Stellan Skarsgård), un operaio di una piattaforma petrolifera, un outsider pagano e vitale, è una crepa nel sistema. Il loro amore è totale, fisico, un'epifania carnale che scandalizza la comunità. Ma quando un incidente lascia Jan paralizzato, il patto d'amore si trasforma in un patto sacrificale. Jan, temendo che Bess si spenga senza di lui, la spinge a trovare altri amanti e a raccontargli i dettagli, credendo che questo possa tenerla in vita e, per estensione, anche lui. Inizia così la discesa di Bess in un inferno di abnegazione e umiliazione, una via crucis che la donna interpreta come un mandato divino per la salvezza del marito. L'amore diventa martirio, la fede un meccanismo di autodistruzione.
La scissione fondamentale del film è inscritta nel suo stesso DNA stilistico. Da un lato, la narrazione principale è girata con una camera a mano nervosa e febbrile, un cinéma vérité che si attacca ai volti, che viola lo spazio personale dei personaggi, che ci rende testimoni scomodi e voyeuristici. La fotografia sgranata di Robby Müller, satura e desaturata a intermittenza, rifiuta ogni abbellimento, registrando la crudezza del paesaggio e delle emozioni. È un'estetica della contingenza, dell'immanenza, che anticipa di un soffio i dettami del manifesto Dogma 95 che lo stesso von Trier avrebbe co-firmato l'anno successivo. Siamo intrappolati nell'esperienza soggettiva di Bess, senza filtri, senza la distanza rassicurante della composizione classica.
A questa immersione brutale si contrappongono, con un effetto di straniamento quasi brechtiano, i cartelli che dividono il film in capitoli. Ogni capitolo è introdotto da un'immagine statica, quasi pittorica, un tableau vivant che sembra un incrocio tra un paesaggio romantico alla Caspar David Friedrich e la copertina di un album prog rock degli anni '70. Queste immagini, colorate artificialmente e accompagnate da brani iconici di David Bowie, Procol Harum o Elton John, creano uno iato, una pausa riflessiva che eleva la sordida cronaca del martirio di Bess a una dimensione mitica, quasi favolistica. È un'antinomia folgorante: il realismo più crudo della narrazione e l'artificialità più sfacciata della sua struttura. Von Trier ci dice che stiamo guardando una parabola, una leggenda, anche mentre ci costringe a non distogliere lo sguardo dalla carne martoriata della sua eroina.
Il debito più evidente, quasi una filiazione spirituale, è nei confronti di Carl Theodor Dreyer. Il volto di Emily Watson, come quello di Renée Falconetti ne La passione di Giovanna d'Arco, diventa una mappa della sofferenza e dell'estasi, un paesaggio in cui si combatte una battaglia teologica. Von Trier utilizza il primo piano non per psicologizzare, ma per spiritualizzare, per cercare un barlume di trascendenza nel dolore più abietto. Ma se la Giovanna di Dreyer era una vittima lucida del potere, la Bess di von Trier è una figura più ambigua, la cui "bontà" è talmente estrema da diventare una forza distruttiva, un'aberrazione che il sistema non può contenere e deve espellere.
La performance di Watson è un evento irripetibile. Senza trucco, senza vanità, si offre alla camera con una vulnerabilità che fa quasi male guardare. Il suo corpo, il suo volto, la sua voce che slitta da un'ingenuità infantile a un'asprezza disperata, sono lo strumento attraverso cui il film raggiunge le sue vette più insopportabili e sublimi. È un'immersione totale che va oltre la recitazione, un atto di fede attoriale che rispecchia quello del suo personaggio.
E poi c'è il finale. Un finale che ha diviso e continua a dividere, un colpo di scena che può essere letto come un miracolo genuino, una beffa cinica e crudele, o, più sottilmente, come un commento metacinematografico sul potere del racconto. Dopo quasi tre ore di realismo spietato, in cui ogni speranza viene sistematicamente calpestata, von Trier compie un gesto di pura magia, un'apoteosi tanto sfacciata quanto commovente. Le campane che risuonano dal cielo sono un'intrusione del soprannaturale, una ricompensa divina che valida a posteriori il sacrificio di Bess. È la risposta di un demiurgo alla fede cieca della sua creatura. Per alcuni è un tradimento del tono del film, una facile consolazione. Per altri, è l'affermazione ultima che la fede, per quanto assurda e autodistruttiva, può letteralmente spostare le montagne e far suonare campane invisibili. È il cinema che si fa Dio, che concede la grazia attraverso un effetto speciale, riconoscendo che le favole, a volte, sono più vere della realtà.
Le onde del destino non è un film che si "apprezza" nel senso convenzionale del termine. È un'esperienza che si subisce, un interrogatorio sull'essenza della fede, dell'amore e del sacrificio. Mette lo spettatore nella posizione scomoda del concilio degli anziani: giudichiamo Bess? La condanniamo per la sua follia? O ci lasciamo scuotere dalla possibilità terrificante che la sua logica d'amore, per quanto deviata, possa contenere una scintilla di verità divina? È un'opera lacerante, imperfetta, manipolatoria e, proprio per questo, un capolavoro assoluto, una cicatrice che il cinema ci ha inflitto per ricordarci di cosa è capace quando smette di confortarci e decide di metterci alla prova.
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