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Frank Costello, Faccia d'Angelo

1967

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Ancora una volta segnaliamo lo sfregio perpetrato dalla distribuzione italiana con un titolo assolutamente osceno, utile forse per un poliziesco di quarta serie. Ribattezzare un capolavoro come "Le Samouraï" con il prosaico e fuorviante "Frank Costello, Faccia d'Angelo" non è solo un atto di scarsa fantasia, ma una vera e propria mistificazione che tradisce l'essenza stessa dell'opera. Il titolo originale, ben più evocativo, allude fin da subito all'austera e quasi sacrale condotta del protagonista, un guerriero moderno che segue un proprio codice d'onore in un mondo senza più onore, un ronin metropolitano in un'epoca di mercenari. Questa banalizzazione è emblematica di una certa tendenza a sottovalutare la profondità intellettuale del cinema, riducendolo a mera successione di eventi narrativi, quando invece qui siamo di fronte a pura poesia visiva.

A dispetto di questo un film meraviglioso, dove un Melville ispiratissimo ricostruisce la perfetta e sublime solitudine di un killer e ne restituisce le atmosfere crepuscolari con una precisione chirurgica che è al contempo glaciale e profondamente toccante. La sua cifra stilistica, fatta di lunghi silenzi, di gesti misurati e di un'architettura visiva impeccabile, eleva la narrazione a un livello di pura astrazione formale. Ogni inquadratura è una composizione pittorica, permeata da una palette di grigi, blu e neri che riflette l'anima del personaggio e l'inevitabilità del suo destino. Melville non si limita a raccontare una storia di crimine, ma dipinge un affresco esistenziale sulla predestinazione e sull'isolamento, portando alle estreme conseguenze il concetto di antieroe solitario. In questo, il regista è palesemente debitore di un certo rigore bressoniano, unito però a un'estetica noir che evoca i chiaroscuri della pittura di Edward Hopper, con i suoi personaggi sospesi in un'eterna malinconia urbana.

In questo il regista è aiutato dalla strepitosa prova di Alain Delon in una delle sue parti migliori. Delon non interpreta, egli è Frank Costello. La sua bellezza algida, la sua inespressività calibrata, il suo sguardo penetrante diventano il veicolo perfetto per un personaggio che comunica più attraverso la sua assenza di emozione che con qualsiasi dialogo. È un volto di pietra che nasconde un'anima tormentata, un'eleganza innata che contrasta con la brutalità del suo mestiere. La sua recitazione minimale è un tour de force di sottrazione, dove ogni tic, ogni movimento controllato del corpo, ogni impercettibile variazione nello sguardo rivelano strati di complessità psicologica. Questo ruolo cementerà l'immagine di Delon come icona di un certo tipo di mascolinità cinematografica: fredda, distaccata, fatale, destinata a segnare l'immaginario collettivo e a influenzare generazioni di attori e registi, da Jean-Pierre Léaud fino a Ryan Gosling in "Drive".

Frank Costello è un killer solitario che si trova contro le forze dell’ordine e i suoi stessi compagni. La sua esistenza è scandita da rituali quasi monastici: il cappello, i guanti bianchi, l'uccellino in gabbia che funge da barometro della sua quiete interiore. Questo metodismo ossessivo non è solo una protezione, ma un'espressione della sua etica inflessibile, il suo "bushido" personale in una giungla di tradimenti. Inizierà una battaglia silenziosa contro “l’altro da sè”, un conflitto dove il mondo esterno riluce in filigrana come un palcoscenico ostile, vendicativo, incombente. Ma è anche un conflitto interiore, la lotta di un uomo contro la sua stessa natura e il suo destino ineluttabile. Il fatalismo melvilliano permea ogni sequenza, quasi che Costello fosse un personaggio della tragedia greca, condannato a un epilogo preordinato che egli accetta con rassegnata dignità. La sua ricerca di un'impossibile purezza in un universo corrotto è il cuore pulsante del film.

E dove l’eroe si erge solitario, con i suoi rituali di vita e di morte, con i suoi valori immensamente più alti rispetto a tutto il resto. Non è un eroe nel senso convenzionale, ma un'incarnazione di principi che la società ha da tempo abbandonato: lealtà, disciplina, una forma perversa ma innegabile di integrità. Questa purezza di intenti lo rende un alieno in un mondo in cui la legge è arbitraria e la morale un optional. Il film è una meditazione sulla natura del professionismo e dell'onore in un mestiere senza onore, un paradosso che affascina e respinge al contempo. La sua figura si staglia, ieratica e quasi spettrale, sullo sfondo di una Parigi notturna e rarefatta, svuotata di ogni superfluo, ridotta all'essenziale: strade bagnate dalla pioggia, jazz club fumosi, appartamenti spogli che riflettono la sua anima nuda.

Un film che mastica amaro, trasudando cinismo e grezzo romanticismo. Il cinismo è quello di un mondo che sfrutta e poi getta via, quello della disillusione verso qualsiasi forma di giustizia. Il romanticismo è quello, quasi d'altri tempi, di un uomo che crede ancora in un codice, che è disposto a pagare il prezzo più alto per mantenere la propria coerenza. È la malinconia di chi sa di essere destinato a soccombere, ma lo fa con la testa alta, come l'ultimo samurai in un'epoca di fucili e calcoli meschini. Melville costruisce un'ode alla dignità nella sconfitta, un'opera che, pur nella sua apparente freddezza, risuona con una profondità emotiva rara. La sua influenza è palese in registi come John Woo, con i suoi "eroi spargisangue" che condividono la stessa estetica del sacrificio e della lealtà disperata, o in Jim Jarmusch, che ha esplorato la figura del "loner" malinconico in contesti diversi. "Le Samouraï" rimane un faro di stile e contenuto, un'esperienza cinematografica che trascende il genere poliziesco per divenire pura arte. Un’opera di rara bellezza e una lezione magistrale di cinema come linguaggio universale.

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