Perdiamoci
1988
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Regista
Una ballata in bianco e nero, un poema visivo, una seduta spiritica in cui il fantasma evocato è quello, magnifico e dannato, di Chet Baker, tutto questo è Let's Get Lost di Bruce Weber. Uscito nel 1988, poco dopo la misteriosa morte del suo protagonista, il film trascende i confini della biografia musicale per diventare un'indagine quasi mitologica sulla bellezza, sulla decadenza e sul legame inestricabile tra il genio artistico e l'impulso autodistruttivo. È un'opera di una bellezza struggente e quasi crudele, che si è guadagnata un posto eterno nel Movie Canon non solo per il suo soggetto, ma per il modo radicalmente nuovo e indimenticabile in cui ha scelto di raccontarlo.
La grandezza del jazz, con la sua improvvisazione, la sua malinconia e la sua intrinseca fragilità, si infonde qui in una vita vissuta perennemente al limite. Chet Baker è un'icona, ma un'icona spezzata, un Giano bifronte della cultura del Novecento. Weber ce lo mostra in questo suo dualismo irrisolvibile. Da un lato, c'è il Chet del passato, evocato attraverso fotografie d'archivio e spezzoni di filmati: un adone di una bellezza quasi irreale, il James Dean del jazz, l'incarnazione del "cool" della West Coast, con una tromba che sussurrava ballate liriche e una voce che sembrava spezzarsi a ogni nota. Dall'altro, c'è il Chet del presente filmato da Weber: un uomo dal volto scavato, una mappa di rughe e dolore su cui la vita e l'eroina hanno tracciato solchi profondi, senza più i denti davanti, un relitto che parla con un filo di voce. Eppure, da questo guscio rotto, emerge ancora, miracolosamente, la stessa, purissima musica. Anzi, forse ancora più profonda, spogliata di ogni giovanile baldanza e ridotta alla sua essenza più nuda e dolente.
Questo documentario è essenziale per la storia del cinema perché ha ridefinito le regole del genere. La sua eredità risiede nella sua estetica audace e senza precedenti. Bruce Weber non è un documentarista, è un celebre fotografo di moda, e il suo sguardo è quello di chi è abituato a creare miti, a scolpire icone nella luce. Applica questo suo "tocco" a un soggetto che è l'antitesi del glamour patinato. Il risultato è un cortocircuito visivo e morale di una potenza straordinaria. Le due ore del film, girate in un bianco e nero crudo e cupo dal direttore della fotografia Jeff Preiss, non hanno lo stile di un reportage, ma di un servizio fotografico per una rivista di lusso. Weber trova la bellezza nella rovina, l'eleganza nella decadenza. Questa scelta è la sua genialità e il suo aspetto più controverso. Estetizzando la dipendenza e la sofferenza di Baker, lo sta forse sfruttando? O sta semplicemente compiendo l'atto più onesto, mostrando come, anche nel degrado più totale, il carisma e la grazia di Chet rimanessero in qualche modo intatti? Il film non dà una risposta, ma ci lascia sospesi in questa ambiguità affascinante.
Chet Baker emerge così come l'archetipo dell'antieroe romantico e del genio musicale maledetto. È un Icaro del jazz che ha volato troppo vicino al sole della fama e dell'eroina, e di cui noi osserviamo le ali bruciate. Ma è anche un sopravvissuto ostinato, un uomo che, nonostante tutto, continua a creare bellezza. Il film, passando dal passato al presente, dalla performance che ha portato Baker al successo e dai suoi controversi anni di “gioventù perduta” al commovente declino della sua carriera e alla lotta contro la dipendenza, crea un'atmosfera onirica e improvvisata. La sua struttura non è cronologica, ma associativa, proprio come un assolo jazz. È un collage di interviste a ex mogli, amanti, figli e musicisti, alternate a sequenze oniriche di Baker che guida una decappottabile o che canta in uno studio di registrazione. Offre uno sguardo raro e dietro le quinte sulla vita decadente del primo "bad boy" del jazz.
Jazz e Cinema d'altronde è stato un connubio che ha quasi sempre funzionato. Inizialmente, il jazz era soprattutto colonna sonora, il suono diegetico che riempiva i locali fumosi del cinema noir. Ma è con la Nouvelle Vague francese che il jazz diventa il battito cardiaco di una nuova sensibilità cinematografica. La colonna sonora totalmente improvvisata da Miles Davis per Ascensore per il patibolo di Louis Malle è l'esempio perfetto: il jazz, con la sua libertà e la sua rottura delle convenzioni, era lo specchio sonoro di un cinema che stava facendo a pezzi le regole. Altri film, come Bird di Clint Eastwood, hanno tentato di raccontare la biografia di geni del jazz. Ma Let's Get Lost fa qualcosa di diverso e, forse, di più profondo. Non è un film sul jazz; è un film che è esso stesso jazz. La sua struttura frammentata e non lineare, il suo ritmo che alterna momenti di lirismo a pause silenziose, la sua natura improvvisata, tutto riflette la musica che ne è al centro. È una delle poche opere che riesce a catturare non solo la storia, ma l'anima stessa di un genere musicale.
Il lavoro di Weber è un'opera che si rifiuta di giudicare. È un'autopsia e al contempo una lettera d'amore. Weber non ci presenta un santino da venerare né un mostro da condannare. Ci mostra un uomo, con tutto il suo talento abbagliante e tutti i suoi difetti devastanti. Per la sua radicale onestà, per la sua bellezza visiva mozzafiato e per la sua capacità di ridefinire le possibilità del documentario, questo film ha scavato un solco profondo nell'iconografia cinematografica. È un'elegia indimenticabile, l'epitaffio perfetto per un angelo dalla tromba ammaccata che si erge su tutto e, con il suo strumento, ci regala attimi di pura estasi.
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